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A Call for a Life-Long Vocation

The first step is the opening of the eyes, the last one is falling in love. Theologian and essayist Anastasia di Gerusalemme, Italian nun and intellectual, narrates through some key words of the Torah, her path to God.




Di Anastasia di Gerusalemme

Una voce ed un grido è la vocazione, dentro il fortissimo eppur esile quadro della creazione, dentro il tremito e la corsa della vita dell’uomo, di ogni adàm che viene in questo mondo.

Ci aiutano le sante Scritture, invitandoci al meraviglioso e tremendo spettacolo dell’incontro - sguardi e parole ricevuti e donati - , tra il Signore, Adonài Elohìm, e il figlio, nato da Lui, dal suo soffio respiro, dal suo parlare, dal suo canto su quello che in origine era il caos dell’abisso del mondo e divenne poi opera di bellezza compiuta, creazione perfetta.

Se accettiamo l’invito, se volentieri il nostro cuore risponde, ecco, l’ingresso dentro le pagine bibliche del libro di Genesi è a noi spalancato! L’orizzonte di sguardo a noi preparato è dato da alcuni versetti di fuoco e di luce, passaggio essenziale del capitolo 3 del primo, tra i libri del Libro: In principio - Bereshìt, dice la Scrittura originale in ebraico, Genesi, per noi, ossia nascita per generazione, parto.

Sì, è proprio così! L’ingresso dentro la Bibbia è sempre come vulva che a noi si apre, per l’uscita gloriosa alla vita, per l’incontro più vivo, essenziale, tocco o anche abbraccio, grazie al quale ritroviamo noi stessi, verità che sempre sorprende, sempre ci supera e ci innalza.


Apprestiamoci, allora, ad ascoltare, a guardare. Risuona per noi la voce di Dio, risplende qui la sua Presenza di volto, di passi, di mani.

Ci collocano, questi versetti del Libro di Genesi 3, dentro lo spazio del giardino di Eden, delizia alla vista, bellezza al desiderio del cuore: qui adamo e sua moglie, altro lato di sé, secondo quanto vien detto in Genesi 2,19, hanno appena vissuto l’incontro con il seduttore, l’astuto, che ha saputo confondere le parole dette loro da Dio: “Non dovete mangiare!”.

Qui, dove a loro si aprirono gli occhi e videro, o meglio, conobbero di essere spogli. Qui, dove ha avuto principio il dolore, l’angoscia, con forma e sostanza di nudità. Qui, dove anche a noi viene dato di prender contatto con quanto, al di dentro, ci brucia e fa male: inermi, disarmati, esposti, svelati, fragili e soprattutto vulnerabili ci scopriamo. Consapevolezza di profondità, gusto quotidiano di un vivere incerto, fuggente, che ci muove, ci costringe a metterci in fuga.

Questo ci è narrato, dentro il mistero dei versetti di Genesi. Leggiamoli, raccogliendo la sublime bellezza della lingua di Dio, che si fa comprensibile all’uomo, a noi, ancor oggi:

“E furono aperti occhi di loro due e conobbero che nudi loro.

E si nascose l’adàm e sua moglie da volti di Adonài Elohìm”.


Il capitolo della Genesi scritto su un uovo.

Il primo passaggio consiste, dunque, nel vedere, nell’aprirsi degli occhi. E’ uno squarcio, una frattura irreparabile questa visione! Il verbo che il testo qui usa racconta anche di apertura di cancelli e di sbarre, apertura per l’uscita dalla prigione (Isaia 61,1). Scarcerazione di prigionieri qui avviene! Ma l’uscire alla luce di una libertà ritrovata porta dolore, porta ferita di consapevolezza, coscienza acquisita di realtà. Conobbe, infatti, l’adàm. Lui, uomo - ish in ebraico - e la sua isshà, moglie, compagnia della sua solitudine, della sua ricerca della parte mancante di sé. L’adàm completo, l’uomo tutto intero, ciascuno di noi, nel nostro essere maschio e femmina insieme, l’uomo e sua moglie, pienezza di vita e sostanza. Il testo usa infatti il verbo al singolare, a dire che è uno solo e non due.

La prima grande guarigione sarebbe, per noi, il ritorno da questa devianza di sdoppiamento: o maschile o femminile. La Bibbia racconta dell’uomo creato da Dio come unico essere, plasmato o respirato da un unico soffio, un unico bacio: l’adàm e il suo lato.

Questo unico capolavoro divino di creazione d’amore, ecco, ora apre gli occhi, ora è liberato e può finalmente vedere ciò che egli è: nudo, scoperto, senza più veli. Dolore allora lo avvolge, paura gli sale da dentro, da chissà quale profondità di principio.

Infinita dolcezza qui scorre, commossa maternità che vorrebbe soccorrere il dolore del figlio. Ma ancora non è dato di poter porre rimedio a questa ferita, che va rispettata, va accolta e ascoltata.


Lo sguardo di una bimba che sembra in atteggiamento di risposta (Wix pic).


Sì, perché proprio qui, dentro questo quadro incredibile, assurdo per struggente bellezza, ci raggiunge la Voce di Dio, la chiamata.

Se non c’è nudità, se non si compie il processo di spogliazione, non ci è data possibilità di ascoltare la Voce e la chiamata si ferma lontana, al di fuori.

Bisogna, dunque, prender coraggio e fermarci ad ascoltare questo mistero di nudità. Nel giro di pochissime battute ritorna, questa parola, tre volte: nudi loro, nudo io, nudo tu. Rimbalza, questa verità di fuoco, dalla bocca dello Scrittore sacro, che racconta la scena, alla bocca di adàm, che si vede, si contempla così, fino alla bocca di Dio, che col suo respiro e il suo bacio sta ancora compiendo la sua opera di creazione e dice: nudo tu.

Cos’è mai questa nudità, questa assenza di veli, di coperture?! Cosa questa verità che sorprende, che spiazza e fa male? Cosa questo dolore, che ci veste, fin dal principio?

Nudo, ‘eròm in ebraico, porta in sé il mistero del risveglio ‘ur, ma al tempo stesso rivela il peso di una pelle, ‘or e l’oscurità dell’essere cieco, ‘iwwér. Sono le stesse lettere, che come in una danza, incontrandosi e scambiandosi posto, formano parole dai significati diversi, ma tutti raccolti ed espressi in quel grandioso mistero che è l’essere nudo di adàm.

Descrizione assolutamente spiazzante di ciò che noi siamo, dei nostri colori, dei contorni della nostra sostanza: nudi proprio perché risvegliati alla vita e alla sua verità, spoglia sì, ma ancora tanto eccitante, un continuo risveglio, un continuo tornare a credere che vale la pena essere qui, sulla scena di questa creazione, cielo e terra di bellezza divina. Nudi perché ciechi, chiamati a fare i conti e le misure con una pelle che ci copre e ci pesa, alla quale teniamo pur tanto e che ci spinge ogni mattino a combattere per conquistare la vita. Pelle che continuiamo a vestire, a curare; pelle che ha bisogno di venir trasformata in coscienza, in verità di ciò che noi siamo, nel più profondo della nostra sostanza. Non è più tempo, infatti, di maschere e trucchi. Lasciamo cadere rimmel e rossetto, togliamo lo smalto e lasciamoci illuminare dalla grandiosità del nostro essere nudi, così come siamo! Sarà il risveglio più bello, al mattino del nostro nuovo principio; sarà visione, finalmente e non più cecità; sarà indossare la veste più bella, quella preparata per celebrare le nozze, l’unione. E che gioia, esultanza fin nelle ossa, che, appunto, come rivela la lingua sacra di Dio, sono sostanza - ‘ezem, verità di ognuno di noi.

E cosa può, contro tutto questo, l’astuto serpente, l’ingannatore, il seduttore che racconta menzogne e distorce le parole a noi dette da Dio? Anche lui porta in sé il mistero di queste lettere che compongono le parole che qui abbiamo tra le mani: ‘arom siamo noi, nudi e lui è ‘arum, astuto, esperto, capace, malevolo nella sua raffinata orchestrazione di inganno.


La Torah (Foto da Boxist.com)

E in questo scontro di presenze e scoperte, di consapevolezze e contatti, ecco irrompe Lui, il Signore del mondo.

“Udirono la voce del Signore Dio passeggiante nel giardino a vento-soffio-respiro del giorno”. Così racconta la sacra Scrittura, in Genesi 3,8 e per tutti, per ognuno di noi, ecco!, risuona, già qui, la chiamata.

Voce di Dio, voce del Padre, di colui che si fa mendicante di compagnia nel suo camminare, nel suo essere, al pari di noi, viaggiatore dentro la storia, dentro gli spazi del mondo. Cammina, il Signore e si ode la voce dei passi, o il rimbombo, il tuono, del suo farsi vicino, del suo inspiegabile farsi uno di noi.

Adàm, però, si nasconde, fuggendo da tanta Presenza. Ci sorprende il verbo qui usato, chavà in ebraico, costruito grazie all’incontro di tre radicali bellissime, poesia e quintessenza di ogni linguaggio: chet, bet e alef. Acceca tanta bellezza! Raccogliamo le perle, intrecciamo collane a ornamento della gloria a noi data in sorte dal tocco di Dio, nostro Padre, artista esperto di tenero amore, di verità creatrice! Rileggiamo a ritroso queste tre lettere, che insieme esprimono il verbo della fuga, della sottrazione, del nascondimento: alef e bet si incontrano qui e cantano insieme il principio dell’alfabeto, il primo balbettio del bambino che inizia a parlare, che entra in contatto col mondo, con la vita che l’ha appena invitato, l’ha appena raccolto, al suo uscire dal grembo. Alef bet, alef bet, ripetizione e ricordo del proprio principio, ossia av, che significa padre.

E a queste due lettere è unita la chet, che invece è l’ostacolo, il muro, la barriera, ciò che separa.

Si nasconde l’adam, dando forma, per noi, a questa esperienza essenziale, inevitabile passaggio di vita e raccontando anche di noi, del nostro fuggire, del nostro diniego all’incontro, all’abbraccio. Facendo evidente la barriera, interposta tra il padre e suo figlio, tra il nostro principio e ciò che noi siamo.

E’ qui, per grazia e misericordia divina, che risuona la voce e si fa udibile la chiamata di Dio. Qui torna il Padre -av - affacciandosi da oltre il muro che noi avevamo innalzato. Si mostra, l’amore e ci chiama per nome. Tanto cammino di vita è impegnato a compiere il viaggio a ritroso, per raggiungere il punto dove per noi si è innalzato l’ostacolo, impedimento a stare a contatto col padre. E da lì inizia poi il risalire, o il passare al di là, scavalcare quel muro di separazione, che ci tiene lontani.

“Ho avuto paura, poiché nudo io!”, confessa l’adàm davanti a suo Padre, che gli parla e lo chiama, lo cerca. Sì, è proprio così! La chiamata di Dio verso l’uomo è una ricerca, un desiderio; il desiderio più forte che c’è, che mai sia dato di poter decifrare. Non esiste passione, brama, volere, ricerca, anelito che possa eguagliare il desiderio che Dio ha del suo adàm. Non esiste, né mai esisterà un amore così, Voce divina che cerca e compone la sua canzone d’amore, di parole assolute, tersissima luce di diamante, di sole e di luna, meraviglia che assomma tutta la creazione. Dico parole, ma in realtà tutto si concentra in un unico suono, come fosse un respiro, un solo unico soffio, sì, un bacio. Nel giardino, alla brezza del giorno, così cantò Dio, così ancora oggi, dentro la storia di ognuno, il Padre, da oltre lo steccato di assenza, di lontananza, ripete: Dove-tu?



Torah e mantello di preghiera (Wix pic).


Non sono necessarie altre parole, spiegazioni, istruzioni, comandi per dar corpo alla vocazione di adàm. Basta solo questo esile, potentissimo alito, che soffia dentro la creazione insieme al vento del giorno, in mezzo al giardino. Ayyékka, risuona sulle righe della Bibbia ebraica. Così tutto il versetto, di una potenza indicibile, che si fa fatica a trattenere e contenere, a ripetere, tanto è bruciante, tanto ci ricolma di meraviglia e stupore, tanto ci afferra, come a voler iniziare, di nuovo, l’opera somma di creazione, di vita:

“E chiamò Adonài Elohìm verso l’adàm. E disse a lui: Dove tu?” (Genesi 3,9). Ayyekkà?

E qui tace, l’Altissimo. Attende, silenzioso e aperto, come grembo di madre, la risposta del figlio. Umilissimo Dio che dichiara il suo amore, il suo desiderio, il suo bisogno, mi viene da dire, che noi siamo presenti, che siamo con Lui, a passeggiare! Umilissimo amore, che si trasforma in attesa. Non ci sono minacce, né offese; non risuonano comandi impossibili né negazioni. Unica parola, unico pianto: la nostalgia che Lui prova per l’uomo, sua creatura. Come se dicesse: “Io ti desidero, dove sei? Mi manchi, dove posso trovarti?”.

La risposta la conosciamo; racconta di noi, svela il nostro segreto, scopre il dolore, dichiarando la nostra paura, la nudità, il nascondimento, che è distanza, che è buco di assenza.

Tutto questo viene alla luce davanti alla chiamata di Dio per ognuno. Disegno mirabile, tavolozza e colori di incanto, di assoluta verità. Oppure potremmo dire Opera somma di ritorno al principio, come a voler attingere le acque preziose della nostra matrice, come a voler tornare al luogo santissimo, che è il grembo. Laggiù, dove noi fummo accolti all’esistere ancora scorrono, ricche e abbondanti, quelle acque materne divine dentro le quali noi fummo formati, dal dito, dal canto di Dio.

Wayyqrà, ossia: chiamò Dio verso l’adàm: e sono cascate di acque, sono correnti di fiumi che ridono, sono zampillii di sorgente che cantano. Come traduce il profeta Isaia, quando dice: “Attingete con gioia alle sorgenti della salvezza” (Isaia 12,3).


Beduino nel deserto del Sahara (Wix pic).


Se hai sete, se ardi nel tuo desiderio di vita, se senti dentro il deserto, ecco, allora, anche tu va alla sorgente, scendi nel grembo del tuo principio, chiedi alle acque della tua matrice di vita, che ancora ti facciano spazio e da lì, ascolta, tendi il tuo orecchio. Potrai allora sentire la Voce, potrai raccogliere le parole del canto d’amore del Padre, potrai sentirti chiamare per nome, figlio, figlia, adàm che Dio ama. Come un folle, un impazzito che scende da oltre quel muro innalzato fra noi e lo supera, lo apre, come utero, come vagina che lascia uscire alla vita. Wayyqrà: chiamò Dio verso l’adàm e sempre Egli chiama! Senza stancarsi di declinare quel verbo magnifico, qarà, che è parola e poi canto. Che è grido, capace di squarciare i deserti, le assenze, le mancanze più amare e brucianti. Qarà - chiamare, così vicino e simile a barà, che è creare.

Infatti, ormai lo sappiamo, la chiamata di Dio verso l’uomo è vita donata, è parto di madre e di padre, è creazione, è nuovo principio, è grazia per poter avere di nuovo la gioia di essere ciò che noi siamo, pienezza della nostra sostanza, libera verità del nostro nome e del volto che Lui ha disegnato.

Wayyqrà: chiama Dio, ad ogni istante e ci dona il respiro e non può fare a meno di lasciare il segno di un bacio, ripetendo: Dove sei?, poiché Io ti amo!


© Rekh Magazine


Sorella Anastasia di Gerusalemme

Innamorata di Dio e appassionata delle Sacre Scritture, vive l’esperienza della vita monastica dall’età di 20 anni. Attraverso la preghiera, lo studio biblico nelle lingue originali e l’ascolto dell’animo umano, rilegge la clausura come spazio di incontro e apertura. Con una particolare attenzione ecumenica, esprime la vocazione della sua città di Ravenna, quale ponte tra Oriente e Occidente. Scrive testi e pubblica conferenze video su temi biblici, che approfondisce con sensibilità mistica e femminile. Con le Edizioni Messaggero Padova ha pubblicato "Grembi che danzano. Lectio divina su figure bibliche femminili" e "Sul carro da viaggio. Nomadi e pellegrini alla luce della Parola". Con le Edizioni Centro Eucaristico ha pubblicato "Venite, mangiate il mio pane! Meditazioni bibliche sull’Eucaristia". Suoi interventi di lettura orante della Parola sono presenti anche nel libro Lectio Divina a cura di Anthony Cilia per la LDC. Per l’editrice Graphe ha collaborato a "Che fai qui Elia? Lettura interconfessionale di 1 Re 19,11-13" e a "Così io sono ai suoi occhi come colei che procura pace. Sguardo femminili sul mondo e sul tempo"



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