Philosophy is a term coined by the Ancient Greeks: it cannot be applied to Ancient Egyptian Thought. However, this does not mean that the Nile's civilization was not aware of the power of reason. On the contrary, the royal officer, scribe and architect Irtysen teaches us a main lesson about this topic. His stela, displayed at the Louvre Museum, provided me with a valuable insight for my deepest trip into Ancient Egyptian thought
di Primavera Fisogni, The Editor
PhD in Metaphysics, author of Nel segno del Pensiero. Come pensavano gli antichi egizi
(Santelli, 2019)
Conoscere (rḫ)
Ha un nome di cui si indovina almeno un po’ il significato anche se non si conosce il geroglifico. Irtysen1 significa “i loro occhi” e si scrive con due occhi spalancati, stilizzati e sovrapposti, accanto a due segni (s, n) e un determinativo, una figurina maschile seduta che sta ad indicare che si parla di qualcuno.
È un personaggio importante Irtysen, oggi diremmo dal “curriculum multitasking”, perché parliamo di uno scriba, che è anche capo degli artigiani, scultore e gran cerimoniere delle feste. La stele che lo riguarda, conservata al Museo del Louvre a Parigi2 è molto citata, perché contiene un esplicito riferimento al fondamentale know-how che serviva a far carriera al tempo dei faraoni: Irtysen è uno che conosce bene la scrittura sacra. Tra la riga 6 e 7, dopo aver tributato i propri omaggi al sovrano ed elencato un’offerta votiva a Osiride degna di un gran signore, con varie specialità gourmet, compreso il latte di Hezat, un pane ḥsb e della birra forte, Irtysen passa ad enunciare le proprie competenze così:
Dice di sé: «Io conosco - rḫ (.i), con sottinteso il pronome di prima persona singolare - il segreto dei geroglifici», letteralmente: le parole (mdw) degli dei/divine, dove nel testo geroglifico abbiamo un singolare (ntr) ma con evidente accezione plurale, essendo molto affollato lo spazio del pantheon egiziano. Esplorare il pensiero degli antichi egizi, richiede di porsi anzitutto una domanda: esisteva la consapevolezza dell’uso della ragione, del suo potere, delle sue possibilità teoriche? La lettura della stele di Irtysen ci porta ad una risposta affermativa, dal momento che lo scriba con svariate competenze, nel raccontarsi, enuncia con orgoglio la propria abilità intellettuale. Dice “conosco” ancora prima di “leggo”. Non è un fatto da poco, perché rḫ, qui utilizzato con significato attivo, indica l’abilità nella comprensione del mistero (sštȝ) di quei segni e aggiunge così un livello ulteriore, la loro decifrazione. La conoscenza a cui fa riferimento Irtysen, con piena cognizione di causa, riguarda dunque 1) l’afferramento di un senso e 2) la riflessione critica; il livello dell’intuizione – capire al volo un’iscrizione fatta di disegni – e quello della ragione, il disvelamento del significato. È una conoscenza, diremmo, competenziale ma al contempo proposizionale. Perché quella che Irtysen possiede è la consapevolezza del “saper fare” (conosco i geroglifici) e sapere che una certa cosa è quella cosa, ma soprattutto che è vera (so che i geroglifici sono segni segreti).
Negli enunciati di logica questa seconda conoscenza si esprime nei termini N sa che y dove y è vero5. Certamente ai tempi di Irtysen era un fatto che i geroglifici fossero un mistero per la maggior parte della popolazione, che forse nemmeno si avvicinava ai monumenti sacri e poteva seguire, al massimo, il passaggio del re o di qualche simulacro divino lungo il Nilo a una debita distanza, in occasione delle feste rituali.
La parola conoscere, in questo linguaggio arcaico, si dice appunto rḫ ed è composta dal segno r, indicante la bocca, e da una consonate aspirata ḫ che richiama la forma della placenta6. La presenza del segno ḫ, posto di seguito a r, la bocca, lascia affiorare il significato generativo del conoscere, presente anche nel termine greco γιγνώσκω, la cui radice è comune a γίγνομαι, generare7.
Un rotolo di papiro sigillato (mdȝ.t, dmd), impiegato come determinativo, ricorda che si tratta di una parola astratta, relativa all’ambito intellettuale. Il dettaglio non è di poco conto, perché ci informa del fatto che gli egiziani avevano la cognizione dell’astratto; il rotolo di papiro lo troviamo sempre, laddove questa idea deve essere rimarcata. Un esempio viene dalla parola “situazione, affare, stato” (ḫr.t). Prendere conoscenza di qualcosa voleva dire incamminarsi sulla strada di quel principio di equilibrio dinamico in cui consiste la verità. Ecco perché, accanto a rḫ, la conoscenza è resa anche con mȝȝ, il verbo che indica la visione. Nella prospettiva egiziana la conoscenza era intesa principalmente come qualcosa di dato, di “appreso”8.
Letteralmente rḫ esprime l’idea del fare esperienza e «denota lo stato che risulta»9 dall’aver sperimentato o afferrato mentalmente qualcosa. L’uso del perfetto, visto in precedenza nel know-how di Irtysen, si deve al fatto che la conoscenza è frutto del sedimentarsi di situazioni variamente esperite, del completarsi di un certo apprendimento. Ad ogni modo, questa operazione mentale rimanda a un senso di compiutezza. Nei testi possiamo trovare rḫ (conosco) sia nella forma in cui si legge sulla stele del Louvre – rḫ.kw –, detta “stativo” (Allen10), perfetto (Grandet-Mathieu11) o pseudoparticipio (Donadoni12), oppure come rḫ.n.i: in entrambi i casi siamo in presenza di un apprendimento.
Benché sia molto sfumata la differenza, si può dire che l’espressione usata nella stele di Irtysen, con il suffisso kw, metta l’accento sul compiutezza dell’atto, sullo stato (l’avere conoscenza / io conosco), mentre la seconda forma, composta dalla particella n + pronome suffisso, porti l’attenzione all’attività (conoscere come sapere / io so).13 Se poi cerchiamo di vedere le cose dal punto di vista degli antichi egiziani, vale la pena di aggiungere che la forma dello stativo era preferita per i verbi intransitivi, mentre quella del perfetto per i transitivi. Il riferimento ci aiuta a capire ancora meglio che idea avessero di conoscenza, che risulta avere un’accezione transitiva (a rḫ.kw segue sštȝ / i segreti, un complemento oggetto), implicando, accanto al cognoscere un cognitum.
Quando invece il contesto testuale esprime un apprendimento istantaneo, una conoscenza ottenuta facendo, il verbo rḫ sta ad indicare il capire, il farsi un’idea. Un chiaro esempio ci viene dal Racconto del naufrago e si riferisce al momento in cui il narratore, unico sopravvissuto della nave colata a picco nella tempesta, approdato fortunosamente su un litorale, si guarda intorno alla ricerca di un po’ di cibo. E narra in questi termini:
ˁḥˁ.n dw.n.i rdwy.i r rḫ dit.i m r.i
«e allora ho stirato le mie gambe per capire che cosa potevo mettermi in bocca».14
Letteralmente: ˁḥˁ.n è un termine narrativo, che sta per “allora”; dw.n.i è una forma verbale da dwn, che indica il movimento, lo stiramento degli arti (il determinativo è dato da un paio di gambe in movimento) rdwy.i sono “le mie gambe”, duale, con pronome suffisso di prima persona; nell’espressione r rḫ vediamo la particella “r”, indicante verso, per e il verbo “conoscere”, qui nell’accezione puntuale di “rendersi conto”, dit.i è una forma verbale del verbo di o rdi, che vuol dire donare, dare, causare; infine m r.i si compone di una preposizione “m”, traducibile in “alla” seguita da “mia bocca”.
Anche se la conoscenza, nella maggior parte dei casi, è un bene acquisito, in qualche circostanza è possibile millantare; non però quando si tira in ballo il re, circostanza che richiede di precisare bene come stanno le cose. Ad esempio Sanahat (“il figlio del sicomoro”), meglio noto con il nome Sinuhe, protagonista di un testo che potremmo definire l’Odissea dell’Antico Egitto, si presenta ai lettori come uno che “conosce per davvero” il sovrano: rḫ nswt mȝˁ 15.
Alcune linee della stele di Irtysen: la prima contiene la frase: "io conosco i geroglifici"
Conoscere è anche una pratica, il cui apprendimento consente l’esercizio del potere. Si può far sapere o decidere di non far sapere qualcosa, a volte per necessità strategica. Il verbo rḫ, in questo caso è preceduto da un segno s, con funzione causativa, oppure da una perifrasi mediante dare/fare in modo che (rdi) + conoscere. Nel racconto di Sinuhe l’erede al trono apprende della morte improvvisa di suo padre, a palazzo, e – come un falco (bik) – lascia l’accampamento, con alcuni fidati collaboratori, senza però far conoscere alle sue truppe il suo progetto:
nn rditrḫ st mšˁ.f16
Anche il termine causativo srḫy/accusatore (colui che fa conoscere qualcosa contro qualcuno), formato da s + rḫ + y17 (verbo srḫ), focalizza il senso di rḫ come conoscenza di qualche informazione. Che conoscere sia potere, è qualcosa che gli egiziani, a partire da Irtysen sanno bene e, per questo, viene apprezzato un certo understatement, reso da questa sentenza cristallina:
m ˁȝ ib.k ḥr rḫ.k18
«non gonfiarti per la tua conoscenza»
Letteralmente «non (fare in modo che) il tuo cuore si ingrandisca sotto/a causa della/per la tua conoscenza» (la m iniziale esprime la negazione dell’imperativo19), con l’uso di un aggettivo verbale (ˁȝ) che, nota Allen, tende a descrivere un processo, anziché un tratto caratteristico della persona20. Tenere a bada l’orgoglio era considerato un dovere anche perché la conoscenza non era in alcun modo “dottrina”, quanto piuttosto un dover essere, un perfezionamento morale, in ottemperanza con mȝˁt, il principio di riferimento di ogni attività. Non era dunque un caso che il massimo della conoscenza coincidesse con il più elevato profilo morale, come si evince dalla letteratura sapienziale, specialmente dal genere letterario degli Insegnamenti, in cui spiccava la figura dell’uomo equilibrato, calmo, detto gr, spesso sovrapponibile a chi aveva un elevato grado di conoscenza rḫ21. Quest’ultimo tipo umano era spesso contrapposto al “folle”, termine che abbracciava una vasta area semantica riconducibile alla mancanza di controllo.22
1The Stela of Irtisen, da egypt-grammar.rutgers.edu. Da questo momento solo Irtysen.
2 In calcare, databile all’XI dinastia (2033 a.C.) la stele di Irtysen è esposta nella sala 334 del Louvre.
3 Particella intraducibile che descrive una situazione di tempo presente, nelle preposizioni a predicato avverbiale. P. Grandet, B. Mathieu (a cura di C. Orsenigo), Corso di Egiziano geroglifico, Torino, Ananke, 2007, pag. 129.
4 Il verbo rḫ è qui espresso in una forma che prevederebbe anche la presenza di una figurina maschile accovacciata, che – oltre a fungere da determinativo (un uomo) – indica il pronome di prima persona singolare. Si vedaP. Grandet, B. Mathieu , op. cit., pag. 333.
5 N. Vassallo (ed.), Filosofia delle conoscenze, Genova, Codice Edizioni, 2006. In particolare pag. 9 e pag. 43.
6 L’ipotesi in A. H. Gardiner, op. cit., pag. 27 e 539.
7Vedremo che l’associazione con il concepimento ritorna in verbi indicanti l’atto di intuire e sapere con esattezza, resi con il segno del fallo eretto.
8 «(…) Egyptian conceived ‘knowing’ as ‘having learnt’; hence (…) n rḫ.f may mean ‘he does not know’ just as well as ‘he did not know”», A. H. Gardiner, op. cit., pag. 376.
9 J. P. Allen, Middle Egyptian. An Introduction to the Language and Culture oh Hieroglyphs, op. cit., pag. 236.
10 Ibidem, pag. 211.
11 P. Grandet, B. Mathieu, op. cit., pag. 333.
12 S. Donadoni, Appunti di grammatica egiziana. Con un elenco di segni e di parole, Milano, Cisalpino Goliardica, 1963, pag. 62.
13Mȝ.n. ˁfdt nt siȝ rḫ.n.i imt.s: «Ho visto la scatola di Sia e so cosa c’è dentro».J. P. Allen, op. cit. pag. 236.
14The Shipwrecked Sailor, da mnj.host.cs.st-andrews.ac.uk, riga 46. D’ora in poi Shipwrecked.
15 Testo geroglifico traslitterato con Manuel de Codage in Study Guide for the Story of Sinuhe, da carrington-arts.com creato da Jon J. Hirst. Traslitterazione in Sinuhe, da mnj.host.cs.st-andrews.ac.uk. Alla riga 2: rḫ nswt mȝˁ mry.f šmsw sȝ-nhȝt (uno che) conosce il re per davvero, realmente, direttamente, il suo favorito e seguace Sanahat. Nei segni geroglifici si verifica l’anteposizione onorifica, vale a dire l’anticipazione di nswt, re (lett. quello del giunco), a rḫ, conoscere. D’ora in poi citato come Sinuhe.
16 Ibidem, riga 22: «senza aver informato di ciò il suo esercito» (letteralmente «non aver fatto conoscere il suo esercito (di) ciò»).
17 La y è desinenza caratteristica del sostantivo aggettivato o nisbe
18 Esempio tratto da A. Gardiner, op. cit., pag. 260, che traduce: «do not be puffed up (great to thy heart) on account of thy knowledge». La frase è una delle massime di Ptahhotep, la numero 52.
19 È anche l’imperativo di imi, con significato sovrapponibile a quello di tm: non essere. A. Gardiner, op. cit., pag. 262.
20 «Note that the adjective verb describes a process (…) not a simple quality», J.P. Allen, op. cit., pag. 192.
21 «A man who has mastered his core and is knowledgeable (rḫ ), his actions are effective (mnḫ), he is quiet, calm (wȝḥ-ib), respected by the people around him and praised by the king». E. Buzov, “Notes on Egyptian Wisdom Texts”, in The Journal of Egyptological Studies, IV, 2005, pag. 78.
22 J. P. Allen, op. cit., pag. 263.
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