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How to Flourish in the Midst of the Hell

Etty Hillesum died in Auschwitz at the age of 29 in 1943, after she spent a year and a half at Westerbork, the transit camp near Amsterdam. Hillesum made the experience of good in an abject world. She could flourish, as a person, amid the atrocities.

Etty Hillesum (1914-1943). Immagine originale colorata






«It is indeed my opinion now that evil is never “radical”, that it is only extreme (…) Only the good has depth and can be radical».[1]


«È invero mia opinione che il male non sia mai “radicale”, che sia solo estremo (…) Soltanto il bene ha profondità e può essere radicale».




di Primavera Fisogni


Il 24 luglio 1963 era trascorsa soltanto una manciata di anni dall’inizio del processo ad Adolf Eichmann[2], il dirigente nazista condannato a morte in Israele per il ruolo ricoperto nella soluzione finale (Endlösung der Judenfrage), come fu chiamato – con il glossario della burocrazia – l’annientamento di sei milioni di ebrei operato del Terzo Reich. Hannah Arendt, dopo aver riconosciuto nella banalità del male (banality of evil) la cifra dell’agire di Eichmann[3], prese cautamente le distanze dalla teoria formulata in The Origins of Totalitarianism. Nel suo classico saggio su totalitarismo, Arendt aveva definito il male radicale come quel genere di male che va oltre ogni umana comprensione («it can no longer be deduced from humanly comprehensible motives»)[4].



Etty Hillesum con uno stralcio del suo quaderno (immagine scaricata dal web)


Dopo il processo di Gerusalemme Arendt aggiornò la propria concezione del male nelle parole indirizzate a Gershom Scholem[5]. Ma l’intuizione non ebbe il tempo di essere portata saldamente a concetto, dalla pensatrice politica, che morì prima di concludere il saggio sulla vita della mente[6]. C’è da chiedersi cosa avrebbe potuto scrivere Arendt se avesse conosciuto il pensiero di Etty Hillesum, la ragazza ebrea olandese che voleva diventare scrittrice, viaggiare e testimoniare come il bene possa sempre fiorire, nonostante tutto. Perché, superato lo stordimento iniziale, nel leggere le parole di una donna capace di amare, con uno slancio che sorprende, anche gli aguzzini che stavano annientando un intero popolo, il suo, la sua storia fa emergere una pedagogia del bene applicabile al vivere sociale, come opzione politica per un mondo realisticamente migliore. Una pratica, quella vissuta da Etty Hillesum (1914-1943), mai davvero compresa, per la sua portata imperdonabile[7], un aggettivo che ben s’adatta alla capacità di smarcarsi dalle consuetudini fino al punto di mettersi contro al pensiero dominante[8]. Non meraviglia che questa luminosa protagonista degli anni bui del Novecento sia stata solo tardivamente riconosciuta, nonostante la novità vibrante del suo pensiero avesse fatto breccia fin da quando Etty era viva. L’intuizione della priorità del bene su qualsiasi negatività del vivere, anche in circostanze estreme, non può che sollevare sentimenti contrastanti o addirittura scandalizzare quanti vogliono marcare la più netta distinzione tra il bene e il male, senza considerare l’ingarbugliata consistenza della condizione umana. Posizioni plausibili. Non però nel caso di Etty Hillesum, perché la giovane intellettuale di Amsterdam vittima dell’Olocausto nazista presenta una tessitura del pensiero inscindibile dalla vita.

Proprio da qui occorre partire per portare a tema una testimonianza variamente ricondotta a slancio emozionale, illuminazione mistica, o conseguenza di pratiche analitiche, per argomentare che essa fu l’esito di una genuina attitudine fenomenologica, tradotta in pratica esistenziale. È stato, il suo, un capolavoro dell’attenzione, che – tra i molti meriti e gli innumerevoli insegnamenti ancora inesplorati – può diventare pratica quotidiana, specialmente nei tempi bui come quelli che stiamo vivendo. Per quanto lo scenario di oggi non sia quello del totalitarismo nazista, la cappa del male di un conflitto planetario “a pezzi”[9], avvolge la cronaca dei nostri tempi e c’è bisogno di testimonianze sulla possibilità che il bene divenga espressione concreta di vita, perché con l’odio, come ricordava Etty, non c’è speranza per la condizione umana.


«Una cosa, comunque, è sicura: bisogna aiutarla a crescere, la riserva d’amore su questa terra. Ogni scheggia d’odio aggiunta a questi troppi odï rende questo mondo ancora più ospitale e più invivibile». (4 luglio 1942)[10]

Due sono le domande alle quali danno una risposta i testi di Hillesum: perché la vita vale sempre la pena d’essere vissuta? Si può capire, persino amare, chi fa il male? La mia proposta di lettura del pensiero della Hillesum vuole portare l’attenzione sul sentire come strada maestra al bene. Non passiva sensibilità, né esercizio, per quanto raffinato, di attenzione, il soffrire “fino in fondo” è – in Hillesum – un atto che presenta le caratteristiche di esperienza capace di andare dritta al cuore delle cose[11]. Una lezione più che mai valida e attuale per i nostri tempi, su cui almeno è opportuno meditare. Dare piena luce alla praticabilità della proposta di Etty richiede di farne emergere i tratti essenziali, non accontentandosi di chiosarne la vibrante umanità. Si tratta di capire, dopo che l’opera dell’intellettuale olandese ha conquistato il mondo, come possa contagiare, in forma virtuosa, ognuno di noi. Così che, se fosse possibile applicare l’intuizione che «non si combina niente con l’odio»[12] si sarebbe fatta pienamente memoria di Etty. Non sguardo retrospettivo nel presente, ma esercizio di bene e di apertura all’altro, vittima o persecutore che sia.

Questa ricerca si propone, se non di scavare nella profondità del bene intuita da Etty Hillesum, almeno di effettuarvi un carotaggio, per identificare i tratti più marcati di una condizione umana illuminata in maniera sicuramente originale da una donna speciale. Di fronte al modo di amare il mondo senza compromessi e senza limiti, si tende ad evocare la mistica e la trascendenza, il passo dell’umano verso il divino, pur presenti in Etty, trascurando di indagare la concreta applicabilità della vita buona nel quotidiano di ognuno.

È come se Etty avesse dato corpo, nel pieno dello sterminio nazista, al pensiero che balenò nella mente di Arendt nel celebre carteggio con Gershom Scholem. Hillesum acquisì, sperimentalmente, la consapevolezza della profondità del bene agito, quella depht evocata da Arendt, ovvero della sua continua possibilità di rigenerare la superficie corrosa dall’odio, dalle gelosie, dalle tante forme di sopraffazione. In questo terreno di coltura, dove le pratiche virtuose attecchiscono e rinascono, c’è lo spazio accogliente della condivisione fraterna.




Il bene, dunque, oltre a rigenerare ciò che è corrotto – in un ordine geometrico piano – apre all’accoglienza – valore sociale, di enorme portata politica – e alla profondità – tratto spirituale in cui risiede il principio attivo della dinamica del bene. Come Arendt è rimasta, nella lettura critica delle tragedie del Secolo Breve, la teorica del totalitarismo e dei disastri dell’umano, così Hillesum si dà a vedere come la pensatrice dell’umanità capace di rialzarsi. Come ogni profezia, il valore del messaggio non si esaurisce in uno specifico tempo, ma dipana la sua energia in ogni epoca purché disposta all’ascolto.


2. Etty, la donna che visse due volte



Negli scatti fotografici Esther Hillesum, Etty per i suoi amici, appare una giovane donna dallo sguardo interrogativo o concentrato, con occhi ben aperti sulla vita. Ha capelli corti, un po’ mossi, veste camicette dagli stampati graziosi; ama indossare collane vistose, truccarsi le labbra. Un ritratto del 1937[1] ce la consegna nella sua stanza, accanto alla fotografia del padre, con il mento appoggiato alla mano destra. Tiene una sigaretta tra le dita, guarda l’obiettivo. È lo scatto che preferisco, tra quelli che ci sono pervenuti, perché qui Esther, detta Etty, sembra essere in ascolto. Questa disponibilità all’accoglienza, che s’impone nelle pagine superstiti del suo lavoro di indagine personale, motivano a entrare in relazione con l’autrice, ad avvicinarsi alle sue parole in modo dialogico. L’immediatezza delle riflessioni che ci consegna, sembrano autorizzarlo.

Con ogni probabilità, se non fosse morta ad Auschwitz, avremmo sentito parlare di lei come autrice di romanzi o l’avremmo ricordata per il suo impegno sociale[2]. Forse, però, non avremmo avuto la possibilità di leggere le sofferte pagine scritte negli anni della guerra. Il condizionale resta obbligatorio, anche se grazie ai Diari e alle Lettere possiamo conoscere una scrittrice dotata di talento e una donna di acuta sensibilità sociale.

Poco prima della sua fine, all’età di 29 anni nel lager polacco di Auschwitz il 7 settembre 1943, lasciò cantando il campo di smistamento di Westerbork, in Olanda[3]. A quel giorno aveva dedicato varie riflessioni, immaginando come sarebbe stato congedarsi dai suoi amici, dalla famiglia, dal suo Paese.

Pensava di tenere per sé, almeno per un po’, la notizia, scegliendo con cura qualche libro amato per il suo zaino. La sofferenza era principalmente rivolta al destino dei genitori.

Fino all’ultimo aveva sperato che potessero evitare la deportazione, in virtù dei meriti culturali del fratello Mischa, geniale pianista e fragile giovane affetto da schizofrenia. Quando fu chiaro che questa possibilità era svanita, e i nomi dei suoi cari[4] furono inserito nell’elenco delle partenze, Etty confidò al giornalista Philip Mechanicus, celebre reporter olandese internato a Westerbork[5], con il quale aveva stretto amicizia al campo, che sarebbe andata in Polonia al loro posto, se fosse stato possibile. Sappiamo che tutti gli Stein vennero deportati. Nessuno di loro fece ritorno da Auschwitz.[6]

A Westerbork Etty era rimasta un anno e mezzo, prima come residente volontaria e poi come internata. Aveva il compito di assistere i deportati secondo gli ordini del Consiglio ebraico (Joodsche Raad)[7], in realtà, si era messa al servizio degli altri con profonda sensibilità empatica e un pensiero vivacissimo.

Impossibile non accorgersi di lei o non sentirla subito amica o sorella. I suoi incarichi si desumono, in particolare, dalla lettera del 24 agosto 1943.

Etty si prodigava anche a mantenere vivi i collegamenti con il mondo esterno, grazie all’opportunità di lasciare il campo per le commissioni che il suo ruolo le consentiva; si fermava a parlare con i nuovi arrivati per rasserenarli, se possibile; giocava con i bambini, i figli di madri incapaci di reattività oppure orfani; svolgeva attività di assistenza all’ospedale locale[8], era una figlia premurosa e una sorella attenta, quando a Westerbork la raggiunsero la madre, il padre e i due fratelli Mischa e Jaap. Nella sua baracca scriveva; coglieva fiori, li disponeva in latte di fortuna, osservava il loro sbocciare. Capiva tutto, sapeva bene quale destino la attendesse, non lasciava però in alcun modo che l’apatia prendesse il sopravvento sul vivere.

Arendt non conobbe, né ebbe mai notizia di questa quasi coetanea, coltissima, laureata in giurisprudenza e studiosa di lingue e letterature slave, ebrea non praticante, russa da parte di madre, insaziabile divoratrice di poesia. Rainer Maria Rilke è una presenza viva e interpellante per Etty. Presentendo la possibilità di un viaggio senza ritorno ad Auschwitz, Etty aveva lasciato i suoi quaderni ad alcuni amici, auspicandone la pubblicazione[9].



I quaderni e le lettere di Etty Hillesum sono stati pubblicati solo negli anni Ottanta del '900.


Quando ormai sembrava persa ogni speranza, a quasi quarant’anni dalla sua morte, il mondo si accorse di questa ragazza così speciale, dotata dell’attitudine di guardare alla vita con lenti capaci di andare oltre la contingenza, per illuminare prospettive impensate della condizione umana. Eppure l’occasione di divulgare quegli scritti c’era stata.

Etty Hillesum non era affatto una sconosciuta nell’Olanda del suo tempo, se due lettere-reportage a sua firma vennero pubblicate su iniziativa della resistenza olandese, come ricorda – tra gli altri – Gerrit van Oord, aggiungendo che questo materiale venne anche citato dai due maggiori storici della Shoah olandese. Dunque, «questo fatto contraddice l’opinione corrente secondo il quale Etty Hillesm (…) era stata dimenticata del tutto».[10] Ma se «è dal 1981 che l’aspetto della sua spiritualità divenne preponderante»[11] rispetto alla testimonianza storica in sé, resta da chiedersi perché dal 1962 cali il silenzio sulla denuncia politica e sociale di Etty.

Probabilmente, nella trascuratezza di una così vibrante testimonianza, può aver avuto un ruolo il riferimento alla partecipazione di alcuni esponenti ebrei alla gestione dell’internamento dei correligionari olandesi e profughi a Westerbork o del loro trasferimento nei campi di sterminio.

La stessa Etty, come detto, svolgeva compiti per il Consiglio ebraico, all’interno del campo di smistamento, prima di entrarvi – per non uscirne più – come residente volontaria. Il 5 luglio 1943 perde lo status di collaboratrice, venendo inserita nella categoria di trasportfäig (trasportabile). Non poteva dunque non sconcertare, leggendo gli scritti di questa giovane donna, l’agire di alcuni soggetti, chiaramente complici, nella gestione dello sterminio, che in tal modo pensavano di salvare la propria vita ed erano:


«per la maggior parte profughi ebrei tedeschi che, arrivati a partire dall’autunno del 1939, costituiscono lo staff incaricato di organizzare (…) lo svolgimento delle partenze (…) e si guadagnano in tal modo la permanenza nel lager».[12]

Etty avrebbe potuto restarsene a casa sua, al numero 6 di Gabriël Metsustraat e raggiungere ogni giorno gli uffici del Consiglio ebraico. Tuttavia, dopo la prima grande repressione perpetrata dai nazisti nei confronti dei suoi correligionari ad Amsterdam, alla fine del luglio 1942, scelse di trasferirsi a Westerbork per condividere la condizione dei prigionieri.

È evidente che fare parte di un’organizzazione come questa dava la sensazione di essere al sicuro dalle deportazioni, anche se la realtà era ben diversa[13]. Per Etty, che aveva accettato il ruolo di impiegata dal Consiglio ebraico a Westerbork, su interessamento degli amici e sollecitata dal fratello Jaap[14], e per la sola ragione di portare aiuto alla famiglia e ai deportati, l’esperienza schiuse una finestra sul collaborazionismo dei dirigenti ebrei con il personale nazista. Nondimeno, la giovane era troppo votata all’auto analisi e alla sincerità intellettuale per non sentirsi profondamente interpellata da una situazione vissuta come una sorta di puzzle, “il grande problema”, traducibile in questi termini: più si restava a Westerbork, maggiore era la possibilità di salvarsi la vita[15].


«Naturalmente, non si potrà mai più riparare al fatto che alcuni ebrei collaborino a far deportare tutti gli altri. Più tardi la storia dovrà pronunciarsi su questo punto».[16]


Nella lettera del 24 agosto 1943, al culmine di un racconto che rende in pienezza il clima infernale del campo nelle ore della deportazione di decine di malati, donne gravide e bambini, Etty si esprime con chiarezza in merito a ciò, con Philip Mechanicus:


«“Si potrà mai descrivere al mondo esterno quello che è successo qui?” domando al mio compagno. Forse il mondo di fuori pensa a noi come a una massa grigia, uniforme e sofferente di ebrei, non sa nulla dei fossati, degli abissi, delle sfumature che separano i singoli e i gruppi; forse non sarebbe nemmeno in grado di capire queste cose».[17]

Risuonano, a questo punto, le parole di Hannah Arendt a Gershom Scholem. Nella corrispondenza con l’amico, la pensatrice politica, nel replicare alla critica di giudicare l’ingiudicabile e che nei Consigli ebraici c’erano «persone spregevoli»[18], sostenne che i responsabili ebrei avrebbero potuto «non fare nulla»[19]. Anni più tardi, il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman ritornava a interrogarsi sull’agire ai tempi dell’Olocausto, traendone una riflessione che può essere ampiamente condivisa, al di là del giudizio di ognuno:


«Un irresistibile impulso a vivere spingeva da parte gli scrupoli morali e con essi la dignità (…) Avendo ridotto la vita umana al calcolo dell’auto conservazione, la razionalità l’ha derubata della sua umanità».[20]

Di certo la denuncia dei sordidi personaggi che, nel Consiglio ebraico andavano ben oltre il proprio ruolo notarile, per assurgere ad autentici aguzzini della propria gente, ha pesato parecchio sulla recezione degli scritti di Hillesum. Non va dimenticato che, a differenza di quanto è avvenuto e avviene nel mondo cattolico e protestante:


«l’opera di Etty Hillesum non è stata apprezzata e recepita con uguale entusiasmo dal mondo ebraico».[21]


Tra le posizioni a difesa dell’integrità morale e dell’ebraicità di questa testimone del nazismo in Olanda, specialmente dopo le critiche mosse dalla storica Henriëtte Boas[22], ricordiamo il saggio di Smelik jr[23] e di Rotondo.[24]

Per quanto concerne questa ricerca, l’interesse verso i testi della Hillesum è motivato dalla sua esperienza, mai disgiunta da un’analisi serrata, dell’inaridimento umano in un contesto che sembrava favorirla e, per quanto invece la riguarda, incentiva l’esatto contrario, ovvero una piena fioritura emotiva, intellettuale, sensitiva, relazionale, spirituale[25]. Che cosa possieda, di tanto eccezionale, l’esperienza di questa donna è lei stessa ad esprimerlo: «trovo la mia vita ricca di significato, nonostante tutto» – afferma – «anche se oso a malapena dirlo quando mi trovo in mezzo agli altri»[26]. In questa breve frase appena citata, sono dati insieme l’insegnamento e la vita della giovane intellettuale:


«Ho già sofferto mille morti, in mille campi di concentramento, so tutto e non mi sconcerta l’ultimissimo rapporto. In un modo o nell’altro so tutto. Eppure ritengo la vita bella e densa di significato. Di minuto in minuto».[27]


Grazie a questa vita piena e “ricca di significato”, Etty è portata ad aprirsi agli altri con una gratuità e una disponibilità che solo in apparenza possono essere considerate l’esito di un generico sentimento di fratellanza: la Hillesum è ebrea, si sente sempre più vicina a quelle radici di fede, ma in un rapporto non esclusivo[28], con una speciale simpatia per il Vangelo[29]. Non è solo la fede in Dio o una capacità eccezionale di affrontare la sofferenza a orientarla in tal senso: la Hillesum attinge alle proprie risorse umane, a una profonda capacità di sentire gli altri, il mondo, le cose. Per altro, non si vede come si possa separare il «grande colloquio»[30] di Etty con Dio dall’attitudine straordinaria di aprirsi alla vita, che la rende capace di andare dritta al cuore delle cose.


«vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so»[31].


(Estratto da P. Fisogni, La profondità del bene. Etty Hillesum e la metafisica della vita buona, 2018, Luoghi Interiori, Premio Città di Castello per la saggistica inedita; sotto il pdf)






© Rekh Magazine






[1] Sulla copertina dell’edizione del Diario 1941-1943 edito da Adelphi nel 1985. [2] J. G. Gaardlandt, primo editore degli scritti di Hillesum, nell’introduzione al Diario scrive: «Etty, lucida come sempre, sentiva che non sarebbe ritornata e aveva chiesto alla sua amica Maria Tuinzing di conservare i suoi diari e di darli, a guerra finita, a Klaus Smelik e a sua figlia Johanna». In Diario, 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, pag. 19. [3] «Un rapporto della Croce Rossa afferma che Etty morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943», Diario, op. cit., pag. 18. [4] Il padre, la madre e il fratello Mischa erano arrivati a Westerbork dopo la retata del 20-21 giugno 1943 ad Amsterdam. [5] Deportato il 9 ottobre 1944 ad Auschwitz Birkenau. [6] Il riferimento viene fatto dallo stesso giornalista, in un suo scritto. Ne parla G. von Oord in “Two voices from Westerbork: Edith Stein and Philip Mechanicus on the transport from Camp Westerbork on 24 August 1943”, in Spirituality in the Writings of Etty Hillesum. Supplements to The Journal of Jewish Thought and Philosophy (ed. L. Batnitzky, C. Wiese, E. Wolfson), vol. II, Leiden, Boston, Brill, pag. 332. [7] Ibidem, pag. 322. Come spiega Gaardlant, esso «era costituito da venti ebrei di elevata condizione sociale che avevano alle loro dipendenze diverse centinaia di funzionari. Come in altri territori occupati, questa organizzazione era nata dietro pressione dei tedeschi e faceva da cuscinetto tra i nazisti e la massa degli ebrei». Diario, op. cit., pag. 17. [8] Per le note biografiche si veda, anzitutto, l’introduzione di J. G. Gaarlandt, primo curatore degli scritti dell’intellettuale olandese, in E. Hillesum, Diario, op.cit. Altri dati in P. Dryer, Etty Hillesum. Una testimone del Novecento, Edizioni Lavoro, Roma, 2000; P. Lebeau, Etty Hillesum. Un itinerario spirituale. Amsterdam 1941-Auschwitz 1943, Paoline, Milano, 2000. [9] Scrive J. G. Gaarlandt che Etty aveva affidato i suoi quaderni all’amica Maria Tuinzing e aveva chiesto allo scrittore Klaus Smelik e a sua figlia Johanna di pubblicarli. In Diario, op. cit. [10] G. van Oord, op. cit., pag. 564. [11] Ibidem, pag. 565. [12] Ibidem, pag. 566. [13] «Etty became fully aware that assisting and helping served the self-preservation of the helper, and landed those who were being helped in a life threatening situation», in G. van Oord, “Two voices from Westerbork: Etty Hillesum and Philip Mechanicus on the Transport from Camp Westerbork on 24 August”, op. cit., pag. 331. [14] Diario, op. cit., pag, 171-172. [15] «Hillesum experienced this situation “puzzling”, and felt it brought her face to face with insoluble, “deeper question” (…) a “nearly unbridgeable dilemma, Mechanicus experiences as no problem at all (…) the longer one could remain in Camp Westerbork, the greater the chance to survive». G. van Oord, op. cit. [16] Sono le parole di Etty, scritte nel suo Diario nel luglio 1943, quando riceve l’ordine di partenza da Westerbork. [17] E. Hillesum, Lettere. Edizione integrale, Milano, Adelphi, 2013, pag. 148. [18] Lo afferma Gershom Scholem, nella lettera a Hannah Arendt. Ebraismo e modernità, Milano, Feltrinelli, 1993, pag. 225. [19] «E per non fare nulla, non c’era bisogno di essere santi; bastava soltanto dire io non sono che un ebreo e non desidero avere alcun altro ruolo». Ibidem. Scholem aveva scritto che in alcuni Consigli ebraici c’erano persone “spregevoli”, in altri c’erano invece “santi”. [20] Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 192. [21] G. van Oord, Etty Hillesum (Middleburg 1914-Auschwitz 1943). Scrittura e spiritualità nei Diari e nelle Lettere, Roma, Apeiron, 2010, op. cit., pag. 568. [22] Si veda in particolare la lettera al quotidiano americano “New York Times” del 18 marzo 1984. [23] «The main point of contention in the discussion of Etty Hillesum’s approach to the Nazi’s persecution concerned her choice not to go into hiding but to share the fate of her people instead. Contrary to the faultfinders like Henriëtte Boas, I do not hazard to make a judgment about the correctness of Hillesum’s vision and choice». In K. Smelik jr, The Ethics and Religious Philosophy of Etty Hillesum. Supplement of the Journal of Jewish Thought and Philosophy 28, Leiden, Brill, 2017, pag. 237. [24] A. Rotondo, “Parole dell’anima e la scrittura infinita: l’irrequietezza ‘sacra’ di Etty Hillesum”, in Maestri cercando. Per i 40 anni di insegnamento di Antonio di Grado, a cura di R. Castelli, Acireale-Roma, Bonanno editore, pag. 131-160. Il riferimento a quanto Etty fosse invisa agli ambienti ebraici, dopo l’uscita delle sue memorie, è a pagina 136. [25] L’esperienza della Hillesum è stata citata da Benedetto XVI nel testo della Via Crucis della Pasqua 2007. [26] Ibidem. [27] Un’analisi preziosa si trova in C. Dobner, E. Hillesum. Pagine mistiche (Milano, Ancora, 2007) che cita queste parole del 29 giugno 1942, pag. 135. [28] Cfr. I. Granstedt, Ritratto di Etty Hillesum, op. cit., pag. 68-69. [29] Come si coglie nella lettera del 31 luglio 1943: «Ho fatto ancora a tempo a imparare la grande lezione di Matteo, 6, 24». [30] Missiva del 18 agosto 1943. [31]Diario, 3 luglio ’42, pag. 138.








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