A sharp turn in the Church's thinking on sexual difference. Thus Luisa Muraro, philosopher, former professor of Theoretical Philosophy at the University of Verona and one of the leading scholars of the philosophy of difference, wrote about the Letter on the collaboration of men and women in the Church and in the world signed by Joseph Ratzinger in 2004, a year before becoming pontiff. Almost twenty years after the publication of that text, I would like to repeat an interview with Professor Muraro, because it sheds light on an aspect of Ratzinger's anthropological / theological reflection that is not so popular.
Una svolta netta nel pensiero della Chiesa sulla differenza sessuale. Così Luisa Muraro, filosofa, già docente di Filosofia teoretica all'Università di Verona e tra le maggiori studiose della filosofia della differenza (L'ordine della simbolico della madre, '91) e della mistica femminile (Il Dio delle donne, 2003), scrisse a proposito della Lettera sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo firmata da Joseph Ratzinger nel 2004, un anno prima di diventare pontefice. Trascorsi quasi vent'anni dalla pubblicazione di quel testo, desidero riproporre un'intervista fatta alla professoressa Muraro, perché illumina su un aspetto della riflessione antropologica / teologica di Ratzinger non così popolare [1]. I tempi verbali non sono modificati: si tratta di un documento che va ripreso nella sua integrità.
Professoressa Muraro quali passaggi della “Lettera” condivide e su quali si trova in disaccordo?
La Lettera mette a tema la differenza sessuale, ed è la prima cosa da sottolineare. Per me, che da anni mi dedico con altre (la rivista Via Dogana della Libreria delle donne di Milano e la comunità filosofica Diotima dell'Università di Verona) a pensare il tema della differenza, la Lettera è importante già per il fatto che affronta questo tema. E per come lo affronta, con un senso libero della differenza e in una prospettiva relazionale, ossia come dimensione umana che le singole persone sono chiamate ad interpretare nella relazione con l'altro sesso. Naturalmente, tutto questo è significato nei termini della fede e della morale cattolica, che non mi appartengono interamente ma che sono in condizione di capire. Fra i passi con cui più consento, ne cito uno tratto dal capoverso 14, tutto molto importante, il passo che dice che i valori femminili sono valori umani, e che pertanto la promozione sociale della donna va vista come umanizzazione della società stessa attraverso i valori riscoperti grazie alle donne (e non va vista, aggiungo io, come un atto di giustizia verso un gruppo sociale oppresso, che è la ristretta veduta della politica di sinistra). Trovo notevole anche l'interpretazione della verginità cristiana, in termini di libertà femminile. Non condivido, per contro, che dal pensiero della differenza sessuale discenda una certa forma di famiglia: la comunità di vita creata da una coppia omosessuale e dai bambini che vi possono crescere, se c'è senso di responsabilità, un po' d'amore e rispetto reciproco, mi sembra buona come una famiglia di tipo tradizionale, alle stesse condizioni.
Ma, attenzione, la dottrina cattolica su questi argomenti non è affatto arbitraria e può aiutarci ad aprire la strada di una eterosessualità libera, consentita e vissuta in profondità.
La mia unica opposizione è quando la Chiesa (e intendo non solo la gerarchia ma anche i laici cattolici) impone, o cerca di imporre, la sua dottrina con le leggi dello Stato, ma non mi pare che la Lettera tenda a ciò. A parte, vorrei dire che sono perplessa davanti alla pressione della comunità gay per dare alle unioni omosessuali le identiche caratteristiche del matrimonio eterosessuale. Mi aspettavo, mi aspetto che gli omosessuali, uomini e do
nne, inventino altro e non che ripieghino sull'imitazione dell'esistente. Ratzinger contesta la distinzione di «genere» che verrebbe sostenuta dal femminismo radicale.
Quali sono oggi i termini del dibattito femminista?
Nel linguaggio che io uso, la gender theory non è femminismo radicale: questo nome si dà al femminismo che pratica la separazione, come fu nei primi gruppi femministi (per esempio, quello di Carla Lonzi, Rivolta femminile) e quindi al femminismo che sottolinea come significativo il fatto della differenza sessuale. Quanto al linguaggio e alle teorie di genere, sappiamo che con questo termine, genere (inglese, gender), ci si riferisce all'identità sessuale come mero fatto culturale. Queste vedute non sono originariamente femministe e rispecchiano un orientamento della cultura postmoderna. Io non le condivido perché sono contraria a separare natura e cultura, e perché suggeriscono un percorso di libertà femminile che non mi corrisponde. Io do importanza al fatto di essere nata donna, che vuol dire: dello stesso sesso di colei che mi ha messa al mondo. In questi anni abbiamo assistito al diffondersi del linguaggio di genere a tappeto, come una moda, anche fra chi forse poco sa e poco condivide della teoria vera e propria. Ma il linguaggio, sappiamo, non è mai indifferente e io lo combatto, invitando chi lo usa a rendersi conto che è un linguaggio dell'indifferenza sessuale.
Secondo Ratzinger un certo femminismo «che pure intendeva favorire prospettive ugualitarie per la donna» ha ispirato «ideologie» che mettono in questione la famiglia tradizionale. Cosa pensa in proposito?
Come ho già detto, non sono d'accordo che dal pensiero della differenza sessuale si possa derivare una difesa della famiglia tradizionale. Per il resto, sono d'accordo con la Lettera quando critica il femminismo che combatte gli abusi del potere maschile sulle donne con una politica di conquista o di spartizione del potere da parte delle donne. È proprio questo che tende a fare quello che noi chiamiamo femminismo di Stato e questa è anche la rappresentazione corrente, quasi una caricatura, del femminismo nel suo insieme.
La politica delle donne, così come la conosco e la pratico, non mira alla conquista del potere e cerca di sostituire i rapporti di forza con la pratica della relazione. È giusto denunciare il dominio sessista e combatterlo.
Ma per chi non ha il senso libero della differenza femminile, tutto quello che le donne sono e fanno di diverso dagli uomini, sarebbe effetto o causa di discriminazione sessista, dalla scelta degli studi alla cura della casa al desiderio di maternità. C'è in questa veduta un inconsapevole disprezzo per le donne, alle quali si nega a priori la scelta di quello che sono e fanno. Su questo piano inclinato, si va verso la omologazione delle donne al neutro-maschile.
Ratzinger ribadisce il “no” al sacerdozio femminile. Ci sono argomenti a favore?
Non è esatto dire che il cardinale ribadisca il no all'ordinazione sacerdotale di donne e tanto meno che lo faccia discendere dalla differenza; si limita a registrare la posizione ufficiale di Roma per dire che questa non impedisce alle donne di accedere al cuore della vita cristiana.
Ma allora perché tira fuori la negata ordinazione?
Non lo so, può essere che glielo abbia chiesto il Papa.
Un accenno, per concludere, al femminismo in Italia: si ha l'impressione che sia ristretto a élite intellettuali (Diotima-Libreria delle donne).
Protesto vivamente contro l'etichetta di «élite intellettuale» messa su realtà come la Libreria delle donne, frequentata e tenuta in vita da donne che fanno parte della comune società femminile: insegnanti dell'obbligo, casalinghe, impiegate, studentesse… e su Diotima che organizza incontri con larga partecipazione di donne e uomini, e che scrive libri certo non facili, ma senza cadere negli specialismi, con un linguaggio che cerca di essere vicino all'esperienza e alla vita. Mi sia consentito citarne uno, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana (Liguori, '99), che è nato da un grande seminario nel quale hanno parlato, dalla cattedra, donne non intellettuali (una bidella, una sindacalista, una madre di famiglia, un'infermiera), per raccontare la loro esperienza e dire il loro sapere. Il femminismo in Italia non è appariscente, perché non è femminismo di Stato (che sarebbe il femminismo oggi più riconosciuto dai mass-media), perché non è organizzato e perché ha smesso di fare grandi manifestazioni: si tratta di scelte, non sempre pacifiche, va detto, scelte che riguardano una certa idea di politica delle donne non finalizzata al potere, come dicevo sopra. La fine delle grandi manifestazioni si deve in parte ad una scelta (io sono fra le tante che non hanno mai partecipato a manifestazioni femministe) e in parte al fatto che un movimento in senso vero e proprio non esiste più. Resta che il femminismo è molto diffuso, ha molte espressioni e molti nomi, è una rete di luoghi, rapporti, iniziative, testi, scambi, contrasti, una rete che esce largamente dai confini dell'Italia, e che si dirama nell'intera società, perdendo il nome di «femminismo» e questo, secondo me, va bene, perché a me piace pensare che siamo «più donne che femministe».
[1] Pubblicata su La Provincia di Como, 19 agosto 2004.
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