The widespread and persistent use of torture and other inhuman treatment or punishment is well documented in Iran and in the conflict that followed the Russian invasion, yet, as the UN highlights, investigations and prosecutions are rare and the collection of statistics remains problematic.
Di Primavera Fisogni
Tutti abbiamo letto come i manifestanti anti-regime in Iran, prima di essere condannati a morte, siano stati vittime di brutali torture, affinché confessassero reati inesistenti. Uomini e donne, spesso giovanissimi. Nel conflitto seguito, in Ukraina, all'invasione russa, i racconti dei prigionieri sottoposti a molteplici vessazioni, durante l'arresto, elencano una summa di barbarie che si sperava, almeno in Europa, di non sentire né vivere più. Invece è successo ancora. La guerra (e negli ultimi vent'anni anche la lotta al terrorismo), ci ha semplicemente costretti a fare i conti con pratiche tutt'altro che scomparse, nel mondo.
Corteo di manifestanti in Africa (UN pic)
Infatti, pur essendo molteplici le norme internazionali in base alle quali nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti, questa piaga rimane ancora aperta, in svariate nazioni. Contro la tortura si esprimono: la Convenzione di Ginevra del 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 (ratificata dalla L. 848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificato dalla L. 881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall'Italia con la legge n. 489/1988; lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (L. 232/1999).
La dimensione fisica, carnale della violenza perpetrata mediante tortura, si intreccia a doppio filo con quella spirituale. Ne parliamo con il professor Gianluigi Segalerba, filosofo, accademico, autore di numerosi articoli sul tema della non violenza.
Perché la tortura è tornata così prepotentemente alla ribalta? Forse perché si vogliono trovare colpevoli là dove non ci sono?
Direi che, purtroppo, l’uso della tortura sia sempre stato frequente nei diversi paesi. In questo momento assistiamo alla tortura come ad una forma di propaganda: si esibisce la tortura per fini di guerra e di propaganda: attraverso l’esibizione della tortura si vuole alludere al prossimo annientamento del nemico, si vuole proclamare una guerra senza quartiere, si vuole affermare l’esistenza di un potere assoluto da parte di chi esercita la tortura.
Per quanto concerne la strategia di propaganda, l’esibizione della tortura persegue secondo me il fine di mostrare il potere di chi usa la tortura. Attraverso l’esibizione della tortura si trasmette l’idea che chi può permettersi di adoperare la tortura e di esibirne l’uso sia una persona in possesso di grande potere: questa persona appare come al di là delle leggi e dei limiti della società. L’esibizione della tortura è un modo per attrarre consenso, il consenso di tutti coloro che vogliono affiliarsi ad un gruppo avente ben precisi nemici. Non sottovaluterei, pertanto, il fattore di propaganda rappresentato dall’uso della tortura.
Manifesto delle Nazioni Unite per il Giorno delle vittime di tortura
L’Isis ha segnato un punto di non ritorno, con la spettacolarizzazione delle torture. Perché questa torsione della violenza?
La violenza viene esibita dato che si vuole mostrare che la lotta è senza quartiere, che l’avversario non avrà alcuna considerazione, né otterrà alcuna concessione. La lotta è assoluta: non conosce confini di sorta. Non vi sarà alcuna clemenza per i nemici: al contrario, vi sarà brutalità assoluta contro ogni oppositore. L’odio è assoluto. La guerra è guerra senza quartiere: non si fanno prigionieri; la guerra può terminare esclusivamente con lo sterminio dell’avversario.
Come accennato precedentemente, penso che esibire la tortura in questo caso voglia essere anche uno strumento di propaganda: il messaggio che viene trasmesso è che chi è in grado di esibire la violenza è potente; la persona che esercita la tortura può ignorare qualunque limite, qualunque convenzione, qualunque considerazione per il nemico. Con il nemico tutto è lecito, tutto è legittimo. Esiste il torturatore; esiste il gruppo cui il torturatore appartiene; esistono le idee di questo gruppo. Tutto il resto va distrutto: non conta nulla.
L’Habeas Corpus, norma fondamentale dei diritti umani, sembra aver perso di significato. A chi si deve tutto ciò? Alla cultura, agli Stati?
Credo si debba a diversi fattori. Un fattore, che potremmo definire ideologico, è quello per cui determinati gruppi sono stati considerati espressione di una cultura inferiore e, come tali, torturabili; l’uso della tortura con membri di questi gruppi è stata considerata un’azione meno grave rispetto all’uso della tortura con gruppi di livello culturale considerato superiore.
Le questioni sono state anche di livello giuridico: la lotta al terrorismo ha provocato un ritorno all’uso della tortura o, comunque, una minore attenzione per il rifiuto dell’uso della tortura medesima. La lotta al terrorismo ha avuto la priorità su tutto, per cui il rifiuto dell’uso della tortura è passato in secondo ordine.
Come mettere fine a tanta brutalità? "Studiare l’impegno delle persone, le persone medesime, le strategie adottate da queste persone per combattere la tortura rappresenta senz’altro un addestramento intellettuale e morale: questo tipo di studio fa comprendere infatti come, purtroppo, le battaglie civili necessitino di tempo, pazienza, impegno...".
In Iran la tortura è la prassi per i detenuti, quasi a indicare una pena precedente, accessoria, alla punizione che sarà comminata. Che lettura darne? C’è qualche novità nelle dinamiche strumentali con cui la tortura viene applicata?
Credo che in questo specifico caso l’uso della tortura sia funzionale a trasportare psicologicamente il detenuto in una situazione di inferiorità permanente. Il detenuto che venga sottoposto alla tortura è un detenuto che diventa consapevole di non avere più diritti. Il detenuto viene trasformato in una non-persona; la mente del detenuto viene progressivamente annullata attraverso l’uso della tortura.
Beccaria ha indicato nel giudizio di Dio l’origine della tortura. Lei ha studiato questo autore. Cosa può dirci, in proposito?
La meditazione di Beccaria a proposito della tortura presenta diversi aspetti. Una strategia di Beccaria nella condanna della tortura consiste nella considerazione della tortura come una forma di pena: dato che la tortura costituisce una forma di pena, sottoporre un accusato alla tortura equivale a sottoporre una persona la cui colpevolezza non è accertata ad una pena.
Attraverso la tortura, sostiene inoltre Beccaria, si pretende che accusatore ed accusato coincidano nella stessa persona: l’uso della tortura è, a parere di Beccaria, il mezzo più sicuro per assolvere i colpevoli che siano dotati di forza fisica sufficiente a resistere alla tortura e per condannare gli innocenti che siano troppo deboli per resistere alla tortura.
Il collegamento con il giudizio di Dio è espresso da Beccaria nel senso che, come per i sostenitori del giudizio di Dio il più resistente fisicamente avrebbe ragione così nella tortura la resistenza alla tortura proverebbe la veridicità delle asserzioni del torturato. Entrambi i giudizi sono, a giudizio di Beccaria, privi di alcun fondamento: la resistenza fisica non costituisce alcuna prova di veridicità.
Beccaria fa inoltre notare come l’uso della tortura vada a vantaggio del reo: se infatti il reo resiste alla tortura, sarà libero da accuse; se l’innocente resiste alla tortura, avrà comunque subito una pena che non avrebbe dovuto subire, essendo innocente.
La tortura, in ogni caso, potrebbe essere intensificata al punto da fare confessare a qualunque persona qualunque azione: pertanto, la tortura non può rappresentare un mezzo per arrivare alla verità.
La prigione americana di Guantanamo è stata teatro di torture contro terroristi o presunti tali.
Le donne sono fatte oggetto di tortura, spesso attraverso violenze riferite alla sfera sessuale. Qui la tortura sembra rivestire un significato simbolico.
Per quanto concerne la tortura nei confronti delle donne, la tortura ha in questo caso il fine aggiunto di dimostrare la subordinazione del genere femminile. Senza dubbio in questo caso vi è il preciso intento di riaffermare, attraverso la tortura, la subordinazione del genere femminile, di annullare la donna come persona.
Oltre al dolore e alla paura della morte, quali altri fattori piegano la volontà, nella tortura?
Credo che la volontà venga piegata dall’attesa di essere sottoposti alla tortura. La volontà è già sottoposta ad indebolimento dalla sola attesa della tortura.
Come leggere la tortura nei confronti delle donne?
La tortura nei confronti delle donne è fondata sulla volontà di ridurre le donne a puro oggetto su cui sfogare ogni e qualsiasi sorta di sadismo. Vi sono interessanti pubblicazioni come, ad esempio, il libro di Carol J. Adams, “The Sexual Politics of Meat” (Cambridge, UK, 1990) o, sempre di Carol J. Adams, il libro “Neither Man nor Beast. Feminism and the Defense of Animals” (New York 1995), o la collezione di testi edita da Carol J. Adams e Donovan, “Animals and Women. Feminist Theoretical Explorations” (Durham and London 1995). In queste pubblicazioni vengono analizzati i paralleli e le analogie presenti tra la violenza contro gli animali e la violenza contro le donne: la considerazione sia degli animali sia delle donne come esseri inferiori viene adoperata come una forma di legittimazione della violenza operata nei confronti degli animali e nei confronti delle donne.
Come possiamo mettere fine alla tortura? Al di là della denuncia, della riflessione, della comunicazione di questo abuso, quali azioni virtuose si possono intraprendere, nel concreto?
Come azioni virtuose proporrei lo studio delle lotte che sono state condotte contro la tortura. Studiare le diverse battaglie che sono state fatte nei diversi Paesi e nelle diverse epoche storiche per combattere la tortura, conoscere anche le sconfitte che sono state subite nel corso delle battaglie giuridiche pur di arrivare all’abolizione od almeno alla limitazione dell’uso della tortura, analizzare le strategie giuridiche connesse a queste battaglie è fondamentale per l’educazione civica dei cittadini.
Studiare l’impegno delle persone, le persone medesime, le strategie adottate da queste persone per combattere la tortura rappresenta senz’altro un addestramento intellettuale e morale: questo tipo di studio fa comprendere infatti come, purtroppo, le battaglie civili necessitino di tempo, pazienza, impegno; fa vedere altresì come dette battaglie civili siano state contraddistinte da numerose sconfitte prima che risultati effettivi venissero ottenuti; mostra inoltre come le battaglie civili, in realtà, non terminino mai: nessuna conquista è acquisita una volta per tutte.
© Rekh Magazine
Gianluigi Segalerba
Gianluigi Segalerba è nato a Genova il 24 giugno 1967. Si è laureato in Filosofia presso l'Università di Pisa nel 1991 e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia presso l'Università di Pisa nel 1998. È stato visiting scholar presso le Università di Tubinga, di Berna, di Vienna. Ha insegnato all'Istituto di Filosofia dell'Università di Vienna. La sua prima pubblicazione è stata “Note su Ousia” (Pisa 2001). È stato poi coeditore del volume “Substantia – Sic et Non” (Francoforte sul Meno 2008), ed è autore del libro “Semantik und Ontologie: Drei Studien zu Aristoteles” (Berna 2013). Attualmente vive e lavora a Vienna.
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