Life, Suicide and Choice: A Reflection
- Primavera Fisogni
- 20 hours ago
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The issue of assisted suicide no longer seems to be as controversial as it was in the recent past. The decision to plan their own deaths by two German twin artists who were very popular on Italian television in the 1960s has been largely welcomed by the media. Everything seems too easy and trivial. Rekh Magazine asks two questions: Whose life is it? Is ending one's life when decline sets in really a dignified choice? Sociologist Gianfranco Brevetto, editor-in-chief of Exagere review of the SIPP (Società Italiana di Psicologia e Pedagogia), authored the first paper of the week.

Di Gianfranco Brevetto
Questo scritto meriterebbe di essere preceduto da numerose premesse, distinguo e precisazioni. Il che ne renderebbe non piacevole la lettura.
Appare, tuttavia, indispensabile partire da un’importante considerazione, che è anche un’argomentazione generale ed essenziale: quando si parla della morte occorre avere pieno rispetto per le opinioni e le scelte personali.
La morte è un fatto individuale e, se si prescinde dal mero fatto biologico, accettare il mistero che essa rappresenta è un atto di civiltà.
Vero è anche che, quando si parla del termine della vita di un essere umano, tutte le opinioni, i commenti, le generalizzazioni, le teorie espresse a vario titolo, non appaiono mai definitivi. E aggiungo giustamente.
Le morti, di personaggi più o meno famosi o completamente anonimi e solitari, non costituiscono un arrivo ultimo. Esse sono inevitabilmente corredate da un supplemento: un atto (anche amministrativo o giuridico), delle emozioni, reazioni, un esercizio di memoria, espressioni verbali o scritte, epitaffi.
Un seguito vitale che dura nel tempo, correlato a un processo di mitizzazione del defunto e della sua storia personale.
Non è, quindi, vero quanto ci insegna il vecchio adagio chi muore giace e che vive si dà pace.
La pace regna solo tra gli ulivi, non tra i cipressi. I morti sono duri da sotterrare. I sopravvissuti non ne tengono il dovuto conto e s’ingegnano e si esercitano nella costruzione, sotto le più svariate forme, di pietre tombali, individuali o collettive. Il tamquam non fuisset resta solo un esercizio giuridico e non si addice all’esistenza umana.
Una delle citazioni più note, anche feconde, della tragedia greca è il μὴ φῦναιn dell’Edipo a Colono di Sofocle, in cui si sentenzia: meglio non essere nati e, se si è nati, meglio tornare dove si era prima.
Quello dell’azzeramento, della nullità ab origine, come della damnatio memoriae, hanno la stessa funzione igienica della polvere sotto il tappeto.
(Considerazione: sono davvero “morte” queste lingue nelle quali mi ostino a citare?)
Parlavo prima di un supplemento dopo la morte, un supplemento non un residuo.
Il pediatra e il filosofo
Anni or sono, con un anziano pediatra di mio figlio (al quale devo molto anche per la sua capacità di placare le mie ansie da genitore) mi ritrovai a parlare più volte del tema della morte. Con una buona dose d’ingenuità credevo che, in quanto medico ultranovantenne, mi avrebbe fornito delle risposte mature e con solide basi scientifiche.
Nel corso delle frequenti visite, al susseguirsi delle mie varie questioni, il pediatra dette dapprima delle risposte di tipo professionale. Poi, un giorno, forse anche notando la mia insistenza, l’anziano dottore si aprì e la sua risposta fu tutt’altro che scientifica. Mi fece, a sua volta, una domanda, molto precisa: crede forse che il pensiero umano, nel suo incessante progresso, nel suo prezioso accumularsi, lo sviluppo incredibile delle conoscenze e il modificarsi della nostra anatomia cerebrale nel corso dei millenni, finiscano nel nulla?
Ovviamente non seppi rispondere. La domanda di quell’uomo, che si approssimava alla fine della sua esistenza, mi trovò impreparato. Accennai a un sorriso compiacente e, nelle successive visite, non tornai più sull’argomento.
Passò molto tempo prima che mi imbattessi, per tutte le altre questioni, in uno scienziato, filosofo e teologo: Pierre Teilhard de Chardin. La sua teorizzazione del concetto di complessità-coscienza e la progressiva convergenza nel punto Omega, unico punto di arrivo del processo evolutivo dell’umanità e dell’universo, sembravano fornire una risposta alla domanda del pediatra. Anzi, pensai che quest’ultimo avesse profondamente riflettuto sul pensiero di Teilhard de Chardin.
La questione del fine vita
Negli ultimi anni, in Italia, le cronache, unite alla persistente mancanza di una norma in materia, hanno posto all’ordine del giorno la questione del fine vita. Cioè del quando e del come, e a che condizioni, sia possibile porre fine alla propria esistenza.
Purtroppo, molte delle notizie circolate hanno finito con l’alimentare polemiche senza favorire un sereno confronto. Si è spesso creata confusione in materie che sono di estrema delicatezza e che hanno a che fare con la reale drammaticità di sofferenze fisiche ed affettive.
Il punto cardine sul quale si snoda la vicenda è il Codice penale.
Diciamo che non esistono e non potrebbero esistere norme in grado di proibire il suicidio. Non esiste una motivazione giuridicamente rilevante per una norma del genere, sarebbe irrazionale.
La responsabilità penale è personale ed è impossibile punire una persona deceduta, anche se per mano propria. D'altro canto, però, è perseguibile chi istiga e aiuta qualcuno a suicidarsi, com’è perseguibile, ovviamente, l’omicidio (con tutte le sue sfumature e declinazioni). Su questi aspetti (riassunti brevemente e parzialmente) s’intrecciano le discussioni intorno a una possibile legge in materia.
A quali condizioni la legislazione statale può regolamentare il fine vita? La risposta prescinde dalle mie competenze.
Prendiamo, invece, in considerazione le norme morali e religiose. Nella tradizione cattolica, il suicidio (come ogni interruzione della vita) è considerato un peccato grave.
Il divieto religioso e la norma penale hanno in comune l’elemento soggettivo: chi commette un reato è punibile solo se vi è un animus delinquendi, se cioè esiste un’effettiva volontà nel compierlo.
Se le cose stanno così, la domanda precedente diventa: quando possiamo ritenerci giustificati nel porre fine alla nostra e all’altrui esistenza?
Prendiamo in considerazione un vocabolo filosofico, utilizzato anche nel diritto penale: teleologia. Cioè, che riguarda il fine, lo scopo.
Nella morte causa e scopo spesso si confondono. Complici anche le preposizioni di e per che possono, soprattutto nel linguaggio parlato, essere utilizzate indifferentemente per i complementi di scopo e di causa.
Si muore per malattia, per vecchiaia, per le ferite subite, per le proprie idee, per la fede, per un atto di eroismo, in guerra, per legittima difesa ma anche di risate (come è accaduto al filosofo Crisippo di Soli mentre guardava un asino che mangiava dei fichi).
C’è chi ammazza per vendetta, per gelosia, per noia o per ordine altrui. C’è il suicidio per amore, per debiti o a seguito di una profonda depressione. Poi c’è anche chi si decide di mettere fine alla propria esistenza per porre un limite a sofferenze atroci.
Cosa distingue queste morti? Perché alcuni di questi eventi sono giustificabili e altri condannabili? Cosa distingue un martire da un folle, un soldato da un assassino comune, un boia da un omicida seriale, un malato terminale da un aspirante suicida?
Cosa può, quindi, giustificare la morte propria o altrui? La finalità.
Il fine, mentre la morte, in sé, resta la grande assente. La morte, in sé, non si giustifica mai. Lo possono essere, invece, le sue finalità, le sue cause.
Si tratta di uno spostamento, una metonimia sulla quale sarebbe necessario porre più di qualche riflessione. Un tropo che apporta tutta una serie di ambiguità e storture.
Norbert Elias, illustre sociologo, ci ha lasciato un prezioso volumetto scritto in tarda età: La solitudine del morente.
La modernità, per Elias, ha condotto alla rimozione della morte e, conseguentemente, a quella del moribondo. Vi è un’incapacità di dimostrare i nostri sentimenti di fronte a questo evento, a questo tabù. I vivi considerano la morte un contagio e quindi vi si ritraggono. Chi muore è solo, relegato da una società che non considera più la fine come parte integrante della vita.
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L'autore
Gianfranco Brevetto, laureato in sociologia, giornalista e narratore, ha ricoperto incarichi per attività didattiche presso le università di Napoli e Pisa. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. È stato ideatore e curatore dei volumi Albert Camus. Mediterraneo e conoscenza (2003) e Georges Brassens. Una cattiva reputazione (2007). Ha tradotto dal francese: Maurice Halbwachs, I quadri sociali della memoria (1997), Pascal Bruckner, La tentazione dell’innocenza (2001), Emmanuel Bove, La Coalizione (2011) ed Emmanuel Bove, Il Presentimento (2012). Ha curato la prefazione del volume di P. Fisogni, Into the Void. The experience of emptiness between the Real and the Digital (2020). Dirige, dal 2016, la rivista “Exagere” (www.exagere.it della SIPP Società Italiana di Pedagogia e Psicologia.



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