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God and I: Are We Necessary?

Gianfranco Brevetto takes inspiration from the theme of the latest issue of Exagere review, of which he is the editor-in-chief, to provide the readers with some reflections on a metaphysical domain



di Gianfranco Brevetto


Prendo spunto dal tema dell’ultimo numero della rivista Exagere (www.exagere.it), per proporre alcune riflessioni sul tema di Dio e Io. Devo confessare che la sola scrittura di questi sostantivi mi crea un certo imbarazzo e, una volta composti sulla tastiera, m’interrogo (come se non bastasse, ancora una volta), sul perché la redazione di quella rivista abbia deciso di mettere a confronto due elementi di così grande portata e che, anche presi singolarmente, potrebbero condurre a sviluppare tesi e argomentazioni infinite.

Le ragioni di una scelta così ardua sono evidentemente lontane dal voler arrivare a dimostrare (rinvio a dimostrazioni meglio riuscite di quanto potrei io in questo spazio) l’esistenza (e su questo termine occorrerebbe già soffermarsi) di un Dio e, tantomeno, ricercare un senso di un divino generalizzato a tutte le culture e latitudini. Exagere ha inteso, evidentemente, e come è nel suo stile, fornire una serie di contributi che, partendo da una molteplicità di spunti e approcci differenti, riuscissero a stimolare una riflessione sull’argomento.


Mi limiterò, in questo intervento per “Rekh Magazine”, a prendere in considerazione, con le premesse fatte poc’anzi, solo alcuni punti di riferimento che possano essere utili a qualche, se pur parziale e limitata, riflessione nell’ambito di quel filone che tiene uniti l’ebraismo e cristianesimo.

Riterrei quindi di soffermarmi su uno dei cosiddetti attributi di Dio e del quale approfitterei per procurarmi un aggancio all’altro temine in questione, l’Io. Mi riferisco all’onnipotenza. Una delle qualità classiche di Dio, insieme a eternità, infinitezza, onniscienza, giustizia, l’infinitamente buono, ecc. Questo almeno nel Dio che genericamente si conosce nella gran parte della tradizione a cui si faceva riferimento.

Attributi ovviamente che emergono dalle sacre scritture e che si declinano al massimo grado. Cosa che non accadeva, come è noto, nell’antica Grecia, dove gli dèi, avevano caratteristiche, vizi e virtù, riferibili alla natura umana.

Un ricordo legato alla mia infanzia, e sul quale mi è capitato di riflettere lungamente in seguito, è quello dell’aver imparato a memoria il catechismo di Pio X. In quella selva di domande e risposte (e di preghiere), da mandare giù pena l’essere escluso dalla celebrazione della prima comunione e dai conseguenti regali del parentado, appare chiara la necessità, forse dovuta a un problema squisitamente didattico ed esemplificativo, di definire Dio.

Confesso pubblicamente che, oltre alla fatica di imparare tutto a memoria (non posseggo l’attributo di sommamente reminiscente), ho sempre avuto il timore che una definizione di Dio fosse, in sé, un atto limitativo e, per certi versi, sacrilego.

Se Dio possiede tutte le caratteristiche espresse in modo superlativo, perché avrei dovuto enumerarle, e soprattutto, fissarle per sempre da ragazzino, considerata la persistenza della memoria a lungo termine, nella mia mente adulta?

Ritorniamo al concetto di onnipotenza. Il catechismo in questione, poi messo in soffitta agli inizi degli anni settanta, quando iniziavano a affacciarsi sulla scena altri catechismi ben più rispondenti alle esigenze del tempo, come quello dei vescovi olandesi, alla domanda: Dio può far tutto?, rispondeva: Dio può far tutto ciò che vuole. Egli è onnipotente.


Quel può far tutto ciò che vuole, oltre ad entrare in aperta competizione con le mie esigenze di ragazzetto, che invece dovevo sottostare ad una serie di divieti, mi apriva all’idea di un Dio capriccioso e vendicatore. Cosa che tendevo a negare a priori per ovvi motivi di salvaguardia personale.

Devo confessare anche che, all’epoca, senza aver letto nulla di grandi autori al riguardo, mi consolavo pensando che Dio non poteva avercela con me, che lui non faceva tutto ciò che vuole ma solo ciò che è buono e che, in fondo, qualche birichinata (come le molte altre che avrebbero costellato la mia esistenza) me l’avrebbe perdonata (prima ho dimenticato di aggiungere, tra gli attributi, che è misericordioso). In queste riflessioni puerili, c’era, ripensandoci a più di mezzo secolo di distanza, una buona parte delle questioni che riguardano Dio e Io.



In primo luogo, il problema della definizione (definire significa limitare) di Dio come una questione puramente di natura antropologica e non certamente divina (chi potrebbe essere mai quel Dio, che è tale solo se possiede quegli attributi, a decidere di autodefinirsi?). Questo problema de-finitorio quindi ha un senso e un’utilità solo se visto come de-finizione antropologica di Dio, una definizione delle competenze proprie di una divinità che è possibile declinare solo nell’ambito del vissuto culturale e psicologico dell’umano.

Su questo argomento occorre accennare al fatto che forse l’ebraismo, per certi versi, ci aveva visto giusto quando ha messo in luce la questione dell’ineffabilità divina.

D’altro canto mi ha fatto riflettere, in modo particolare, l’idea legata alla mistica ebraica, del tzimtzum. In poche parole la libera contrazione di Dio, il suo trattenere il respiro, per lasciare posto alla Creazione di tutto ciò che ci circonda, noi compresi. Creazione terminata con il riposo, il tempo del Sabato.


Trattenendo il suo respiro, Dio entra nella storia e si distingue dagli dèi greci, allora inseriti dell’immobilità ciclica dell’impianto concettuale del paganesimo.

Il Dio cristiano, poi, è andato ancora più avanti. È intervenuto direttamente nella storia. Si è fatto uomo, si è attualizzato, ponendo una serie di questioni irrisolte ed irrisolvibili nella concezione dominante dell’ebraismo del tempo. Ma, proseguendo nella nostra argomentazione di sintesi, come il Dio ebraico, una volta entrato nella storia, ha creato una relazione (di potenza?), oltre agli evidenti segni di potenza narrati nell’Antico Testamento, con l’uomo? Attraverso la dettatura di una Legge che, a imperitura memoria, venne impressa nelle tavole.



Se si avesse la pazienza di leggere Paolo di Tarso, con gli occhi del teologo (non sclerotizzato) e del filosofo (o con quelli di entrambi, come molti autori stanno facendo recentemente) si potrebbe percepire, a mio modestissimo parere, un’altra visione del concetto di onnipotenza divina. Dio, entrato nella storia con la creazione (e lui che crea la donna e l’uomo, avrebbe potuto fare altre scelte… a meno che non si voglia considerare l’attività divina reclusa entro il filosoficamente necessario), indica al suo popolo una terra che è promessa. Per arrivarci il popolo, indisciplinato come lo ero Io, ha avuto bisogno di una Legge. Il periodo della Legge (e qui entra in gioco Paolo di Tarso) non è definitivo, non è il limite della creazione.

La Legge (ce lo spiega Paolo nella Lettera ai Galati) ha avuto la funzione di un pedagogo in attesa di altro, di una Nuova Alleanza con un popolo allargato, che si basasse, questa volta, sulla promessa, sulla fede. In questa Nuova Alleanza, instauratasi con la venuta di Gesù di Nazareth, noi ci dobbiamo ritenere non più figli di una schiava, ma di una donna libera (sempre Paolo nella Lettera ai Galati 4,31).

La Legge (la lettera, come la chiama Paolo), dopo il tempo in cui ha avuto la funzione di cui si diceva, è divenuta asfittica, non è stata più capace di rappresentare quel rapporto (quell’alleanza) con l’uomo, con l’umano, capace di tenere uniti i due elementi che qui andiamo analizzando. Nell’ebraismo del tempo, la Legge, si era sostituita all’onnipotenza di Dio, la lettera era divenuta fine a sé stessa, uccidendo la speranza umana, era incapace di indicare una strada, oramai ridotta a obblighi e precetti. Ma, se Dio può fare ciò che vuole, egli può anche indicare un nuovo Sabato nella creazione di cui sono viventi e attuali tutti i fremiti e i gemiti di quella originaria (Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto, essa non è la sola, ma anche noi… - Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 8, 22-23).

Il vocabolo religione, come si sa, ha le sue radici nel verbo legare, e personalmente temo Dio e temo l’Io se pretendono di sostituirsi all’umano (Kafka ci mette in guardia contro la sordità della legge).

Qualunque discorso si voglia fare su un rapporto tra uomo e Dio, questo non può prescindere dalla sua necessaria (e questa volta con accezione filosofica) umanità. L’uomo (che soffre e geme con quanto ci circonda) deve impegnarsi, a pieno titolo, in questo possibile rapporto che va al di là della Legge formale. Impegnarsi in prima persona con gli altri e con l’ambiente.

Se Dio è morto, poco importa. L’espressione ha lo stesso valore (tautologico) del dire Dio è oppure Io sono. Dio e Io esistiamo, se esistiamo, lo siamo indipendentemente dalle idee. Se alcuni filosofi e teologi si offenderanno, poco importa.


© Rekh Magazine




Gianfranco Brevetto - Direttore della rivista online Exagere (www.exagere.it), è didatta della SIPP (Società Italiana di Psicologia e Pedagogia) , ha avuto incarichi di docenza presso l’Università di Pisa e l’Università Federico II di Napoli. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni.






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