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The Bloody Collapse of an Empire

What really lies beneath the Russia's war of aggression against Ukraine? After ten months of a brutal conflict that does not seem to leave any chance to peace, political scientist Alessandro Vitale, professor at University of Milan - the leading Italian specialist in Russian affairs and one of the most renowned international scholar in the field - sketches a systemic analysis of the Europe's biggest conflict since the second world war.




By Primavera Fisogni


Professor Vitale, le sue analisi sul conflitto russo-ucraino, formulate anni fa, si sono rivelate non soltanto fondate ma profetiche. L’aggressione della Russia non poteva e non doveva sorprendere. Perché non è stato così?

Definire “previsione” quanto ho scritto e detto in convegni sul tema negli ultimi trent’anni, da quando dirigevo l’Osservatorio sull’Europa Centrale e Orientale dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) a Milano fino a oggi, è usare una parola grossa. La previsione è quanto di più difficile esista nelle scienze umane, politiche, economiche e sociali, a causa dell’instabilità dell’azione umana e della sua natura aleatoria.

Mi sono però accorto di recente che in diversi scritti, a incominciare dai titoli (ad es. Il potenziale conflittuale nelle relazioni russo-ucraine), già vent’anni fa ero riuscito a individuare alcuni elementi che poi sarebbero stati fondamentali - se fossero stati presi in considerazione e se le ricerche non fossero finite in un cassetto - per leggere con anticipo quanto sta accadendo oggi: dal revanscismo imperiale, alla ri-centralizzazione del potere, all’insofferenza in Russia per l’Indipendenza dell’Ucraina, agli attriti potenziali russo-ucraini. Dodici anni fa invece abbiamo pubblicato con il professor Antonio Violante, dell’Università di Milano, L’Europa ai confini dell’Unione, nel quale avevo denunciato la stagnazione politica e economica delle Repubbliche occidentali ex sovietiche, causate in massima parte dalle ottuse chiusure occidentali, anche della UE (soprattutto protezionistiche, ma anche con la demenziale politica dei visti e un uso dei confini tipico di uno Stato territoriale), che avrebbero favorito la ricaduta di Belarus e Ucraina sotto il giogo del Cremlino, con lacerazioni conflittuali devastanti.

Era una ricerca unica nel suo genere e che è rimasta ignorata e isolata nel mainstream di peana all’Unione Europea. Quest’ultima però ha dovuto fare marcia indietro, troppo tardi, con il “Partenariato orientale”: un pannicello caldo calato su una situazione mal compresa o volutamente ignorata. Le guerre in Cecenia e Georgia, le continue ritorsioni e i boicottaggi nei confronti dell’Ucraina e poi la violenta repressione in Belarus del 2021, sono state inoltre imponenti scosse sismiche, che avrebbero potuto essere lette con più realismo. Questo non è accaduto per molte cause: l’indifferenza nei confronti della ricerca scientifica - ormai confinata in sempre più isolati “giardini botanici”, chiusi e ignorati dalla società e dai governi - il prevalere di interessi politici e economici, il disinteresse nei confronti dei problemi dell’Europa Orientale - tenuta ai margini di un’Europa “dei ricchi”, esclusiva, ancora figlia della guerra fredda – per l’ignoranza delle lingue locali (con conseguente impossibilità di leggere gli studi e di ascoltare gli audiovisivi della dissidenza) e per l’arroganza dei policy-makers.



I colori della bandiera ucraina: l'aggressione russa è avvenuta 10 mesi fa


La Federazione Russa è impegnata in una politica espansionistica e aggressiva che si è svelata, in tutta la sua brutalità, nell’aggressione all’Ucraina. Quali sono, davvero, le mire di questa super potenza?

Le spiegazioni economicistiche, che ogni tanto riaffiorano, vanno relativizzate, come era stato necessario fare nel caso della disintegrazione violenta dell’ex Jugoslavia, anche se la Crimea e il Donbas sono ricche di risorse naturali, delle quali la Russia ha bisogno in misura molto esigua. Sgomberato il campo da questo fattore, rimangono a mio avviso due aspetti centrali per spiegare una tale brutalità, imbevuta anche di aspetti poco razionali e contrari a qualsiasi logica strategica: da una parte le ragioni interne alla Russia (continuamente trascurate da analisti e studiosi di Relazioni Internazionali, soprattutto i “pseudoesperti” dell’ultima ora, che non la conoscono o la conoscono da qualche anno) e dall’altra l’ulteriore tentativo, forse quello finale, di ostacolare il collasso dell’Impero Russo-sovietico, ma anche questo per ragioni soprattutto interne. Putin ha avuto per vent’anni il terrore delle “rivoluzioni colorate” e della perdita del potere. È rimasto sconvolto dalla fine di Saddam Hussein e di Gheddafi. Negli ultimi dieci anni il consenso e la legittimità del governo russo sono diventati sempre più precari. Per recuperarli non c’era nulla di più efficace che annettersi la Crimea (cosa che infatti nel 2014 ha fatto guadagnare numerosi punti di popolarità), inventare un nemico e agitare il problema delle minoranze russe (confuse volutamente con quelle “russofone”) nel “near abroad”: cosa del tutto strumentale, se si pensa alla precedente indifferenza del Cremlino per i Russi in Asia Centrale, ad esempio di fronte alla discriminazioni che hanno subito in Turkmenistan. Gravi discriminazioni, queste, che a Mosca non interessavano niente.

Negli ultimi tre anni soprattutto, con le denunce da parte dell’opposizione russa degli spaventosi arricchimenti della nomenklatura post-sovietica e soprattutto personali del Presidente e dei suoi favoriti e con le proteste, represse con la violenza, contro la violazione della Costituzione del 1993, ormai ridotta a carta straccia e contro i documentati brogli elettorali, il consenso era finito ai minimi storici.

Gli impressionanti video di Navalny, di denuncia della vita da nababbi dei padroni della Russia, sono stati visti da centinaia di milioni di persone, sia in patria che dai Russi all’estero. Da qui la decisione del Cremlino di distogliere l’attenzione e produrre compattezza interna, inventandosi il nemico esterno (i “nazisti” ucraini), “minaccia permanente per la Russia” (che trova attenzione fra i Russi, sensibili a un tema sfruttato dalla propaganda), fatta coincidere nuovamente con chi la governa, come se avessero identici “interessi nazionali”.

Questa è stata l’occasione per completare il “lavoro sporco” già fatto negli anni precedenti in Belarus: riprendere il controllo sulle Repubbliche occidentali ex sovietiche, con pugno di ferro o scatenando perfino una violenza genocida, deportando e annientando gli Ucraini e se necessario riducendo Kiev in macerie come Grozny.


Due settimane fa sono riuscito a ritrovare un mio collega e caro amico ucraino che insegna all’Università di Kiev. Per otto mesi avevo cercato di rintracciarlo, ma senza successo. Pensavo che non sarei mai più riuscito a risentirlo, dato l’elevato numero di caduti che quotidianamente contano gli ucraini. È stata una gioia incommensurabile...

L’aggressione all’Ucraina ha fornito lo strumento per tentare non tanto la riconquista imperiale, ma quello che a mio avviso è un ulteriore tentativo di ostacolare il lungo collasso dell’Impero, che per i Russi è un fattore di etnogenesi: non riescono cioè a trovare una loro identità al di fuori della dimensione imperiale. Questa volta però quel tamponamento continua con la violenza: cosa che non era stata possibile nel 1991 (se non in minima parte), poiché il potere si era fortunatamente spaccato fra il governo sovietico e la Russia di Eltsin (altrimenti sarebbe stato un bagno di sangue nemmeno minimamente paragonabile a quello jugoslavo) e con esso anche la fedeltà dell’esercito.

Quando il potere è tornato a concentrarsi nelle mani di Eltsin e del governo russo, la violenza era ripresa, come nella prima guerra in Cecenia, volta a frenare la potenziale disintegrazione “a cascata”, interna alla Russia. Oggi quella violenza è aumentata esponenzialmente, grazie alla ri-centralizzazione del potere, ormai difficilmente contrastabile, di Putin e è tornata a essere impiegata anche fuori dalla Russia post-sovietica, per cercare di bloccare l’interminabile disintegrazione anche nell’“estero vicino”. Questo la dice lunga sulla pericolosità del potere concentrato nello Stato moderno, anche in termini di violenza. Non c’è nulla di più pericoloso per l’umanità che la concentrazione-centralizzazione del potere. Credo però che si tratti dell’ultimo, disperato atto di questo lungo tentativo di tamponamento della disintegrazione dell’Impero (che è ben visto anche dalla popolazione russa, per profonde ragioni culturali e che quindi serve a fini politici interni), perché la Russia ne uscirà con le ossa rotte, rischiando anche una disintegrazione interna.



Momenti di festa a Kiev, capitale dell'Ucraina, prima dell'aggressione russa


Quali margini vede per negoziare la pace? Davvero è un fattore che dipende al 50% da Stati Uniti e Cina?

La previsione di un attacco all’Ucraina, così privo di logica strategica (basata cioè sul calcolo costi-benefici) e dettato solo dalla rabbia e dalla paura di perdere il potere, che hanno divorato il capo del Cremlino (che come diceva il dissidente russo Boris Nemtsov - assassinato nel 2015 sul ponte di fronte al Cremlino - è un tattico, ma è totalmente incapace di ragionare strategicamente), era molto difficile nel breve periodo, in quanto gli elementi poco razionali di decision-making sono stati prevalenti. Per le stesse ragioni, la pace e il negoziato rimangono ancora oggi sottoposti a questa valanga di elementi scarsamente razionali, che continuano a dettare le decisioni del Cremlino, confusi con calcoli sul mantenimento del potere all’interno della Russia. È evidente quindi che solo la pressione di potenze straniere può influenzare il processo di pace. Soprattutto il ruolo della Cina e dell’India possono essere determinanti, in quanti sono la nuova sponda che Putin ha cercato, puntando a nuove alleanze, per sottrarsi all’isolamento da parte dell’Occidente.



Una veduta di Mosca


L’ideologia di Ruskij Mir, quanto ha giocato, realisticamente, nell’aggressione russa all’Ucraina?

Dapprima quel concetto significava “la comunità russa” culturale e religiosa, oltre i confini dell’Impero. Poi si è malauguratamente trasformato in un’ideologia politica funzionale alla “riunificazione delle terre russe”, delle quali si pretende che faccia parte anche l’Ucraina, sotto il comando di Mosca. Il travestimento ideologico del Russkij Mir (Mondo russo) è oggi indispensabile perfino per attirare consenso all’uso della violenza per “difendere le minoranze russofone” finite con la disintegrazione dell’Urss nelle Repubbliche indipendenti (25 milioni) e lottare contro tutti i suoi “nemici”.


La plurisecolare cultura russa viene identificata all’estero con il governo attuale e risulta sempre più emarginata, bistrattata, declassata. I corsi di lingua russa in Occidente, nelle Università e in altri centri, incominciano a andare deserti, anche perché le prospettive di lavoro con la lingua diventano sempre più esigue. Di questo disastro però a Putin non interessa nulla

È uno strumento efficace, usato quando serve per ragioni interne o per creare un’immagine ideale all’estero (per chi crede alla propaganda), ma al contempo è paradossale. Prima di tutto perché i russofoni d’Ucraina si sentono sempre più ucraini: a Kiev più dell’80% parla russo e non ha mai disprezzato la cultura russa, ma oggi più che mai difendono la loro patria, martoriata da un’aggressione dalla violenza inaudita e si avvicinano alla lingua e alla cultura ucraina, per secoli soppressa nell’Impero. Poi perché questo mezzo è servito per trasformare gli eredi dei peggiori distruttori della cultura russa nel corso di un intero secolo, il Novecento (i bolscevichi, il Kgb, gli inquisitori, ecc.), in paladini di una cultura che hanno letteralmente distrutto, cancellato e impunemente estirpato, costringendo la migliore intellighenzia russa all’emigrazione fin dagli anni Venti (e trasformandola in fortuna di altri Paesi) o sopprimendola con fucilazioni di massa e deportandola nei “campi artici della morte”, come li ha definiti Robert Conquest. La realtà è che il Cremlino e il suo capo stanno continuando a distruggere la cultura russa esattamente come i loro predecessori, dei quali sono i coerenti continuatori. Altro che identificarli con “la Russia”! Nelle Repubbliche ex sovietiche il russo si sta ritirando.

La plurisecolare cultura russa viene identificata all’estero con il governo attuale e risulta sempre più emarginata, bistrattata, declassata. I corsi di lingua russa in Occidente, nelle Università e in altri centri, incominciano a andare deserti, anche perché le prospettive di lavoro con la lingua diventano sempre più esigue. Di questo disastro però a Putin non interessa nulla: anzi, l’isolamento della Russia, il rifiuto della sua cultura, il disprezzo della lingua gli danno l’insperata, riguadagnata legittimità di parlare a nome di “tutto il popolo” e la possibilità di utilizzare il vittimismo della “Russia disprezzata” e della “russofobia” (molto simile al vittimismo serbo dei primi Anni Novanta), per puntellare il suo potere, identificandolo con un intero Paese, del quale sta completando la devastazione, primariamente culturale.


L’isolamento della Russia, il rifiuto della sua cultura, il disprezzo della lingua danno a Putin l’insperata, riguadagnata legittimità di parlare a nome di “tutto il popolo” e la possibilità di utilizzare il vittimismo della “Russia disprezzata” e della “russofobia” (molto simile al vittimismo serbo dei primi Anni Novanta), per puntellare il suo potere, identificandolo con un intero Paese, del quale sta completando la devastazione, primariamente culturale.

Da questo tritacarne, quali sono i margini di sviluppo della NATO?

La farsa della coincidenza fra gli interessi dell’autocrate e quelli “nazionali russi” - che ha abbagliato anche molti occidentali inebetiti dalla pluriennale propaganda del Cremlino - si vede molto bene nella questione della NATO e della sua espansione a Est. La politica estera del Cremlino ha dato un enorme, inatteso impulso allo sviluppo di un’Alleanza che era in crisi, già resa inutile dalla fine della guerra fredda e rilegittimatasi molto a fatica nel corso di trent’anni. All’Europa Centrale e Orientale la NATO aveva dedicato sempre meno risorse e attenzione: altro che “accerchiamento della Russia”! I Paesi Baltici avevano ricevuto fino a cinque anni fa risorse e uomini in quantità risibili. Il potenziale ingresso dell’Ucraina era visto dai vertici NATO come lontano di decenni.


L’aggressione all’Ucraina ha fornito lo strumento per tentare non tanto la riconquista imperiale, ma quello che a mio avviso è un ulteriore tentativo di ostacolare il lungo collasso dell’Impero, che per i Russi è un fattore di etnogenesi: non riescono cioè a trovare una loro identità al di fuori della dimensione imperiale.

Gli armamenti nucleari dislocati in questa regione erano imparagonabili rispetto all’enorme potenziamento nucleare qui dispiegato dalla Russia di Putin, che ha armato fino ai denti regioni a ridosso dell’UE e della NATO: dalla penisola di Kola, all’exclave russa di Kaliningrad, dotata di più di cinquanta testate nucleari puntate sulle capitali europee, situate a breve distanza. L’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, la richiesta di adesione della Moldova e di altri Paesi balcanici dimostrano che la politica estera di Putin è andata in senso diametralmente opposto rispetto all’“interesse nazionale” della Russia (ammesso che ne esista uno e che sia identificabile con la minaccia di una NATO incombente, come dichiara il Presidente russo stesso). Un risultato davvero tragicomico, ma che ancora una volta serve per far credere che il Cremlino sia tutt’uno con il popolo russo, minacciato da un Occidente aggressivo e che faccia realmente i suoi “interessi”.


Danza tradizionale russa


Lei che ha profondi legami di ricerca con la Russia e l’Ucraina, come sta vivendo, sul piano anche personale, questa ferita?

Nelle scienze politiche l’analisi deve essere condotta il più “freddamente” possibile, astraendo dalle preferenze personali e “riparandosi” dall’influenza distorcente che possono esercitare i giudizi di valore. Tuttavia ho numerosi amici, sia in Ucraina che in Russia. Alcuni russi hanno sposato ucraini o hanno parenti in Ucraina e viceversa. Il loro dramma è straziante e è inevitabile provare empatia. Un dramma che dura da più di dieci anni e che ha spaccato le famiglie russo-ucraine anche all’estero, come mi ha raccontato una psicologa siberiana che lavora con russi e ucraini in Germania. Oppure, al contrario ma più raramente, le ha riunite ancor di più, nell’odio per l’autocrazia e la sua isterica guerra di distruzione. Due settimane fa sono riuscito a ritrovare un mio collega e caro amico ucraino che insegna all’Università di Kiev, un uomo mite, per nulla bellicoso, grande esperto della storia medievale dell’Hansa germanica e dei Paesi baltici, che credevo disperso in guerra. Per otto mesi avevo cercato di rintracciarlo, ma senza successo. Pensavo che non sarei mai più riuscito a risentirlo, dato l’elevato numero di caduti che quotidianamente contano gli ucraini. È stata una gioia incommensurabile, che deve fare ancora i conti con un tritacarne vorace, insaziabile, che divora uomini, ricchezze, futuro.



Parata militare a Mosca, nelle vicinanze della Piazza Rossa


I Russi, anche i più coscienti e ostili alla guerra d’aggressione e di annientamento del Cremlino, stanno trasformandosi in paria, sempre più estranei al consesso civile, come i tedeschi durante e dopo la Seconda guerra mondiale. È una grande pena, perché il loro futuro non potrà che peggiorare, anche all’estero. Le conseguenze di questa orribile guerra di annientamento saranno di lungo periodo e per ora non riescono a rendersene pienamente conto, soprattutto in Russia. Così come non si rendono conto che si tratta di una guerra diabolica e rivoltante, basata su una propaganda scatenata da uno degli uomini più ricchi del pianeta, che per pura libidine di potere manda a morire migliaia di poveracci privi di addestramento e di mezzi, soprattutto di etnie minoritarie, che a casa non hanno nemmeno i servizi essenziali, usandoli come carne da cannone contro una popolazione altrettanto povera e ormai disperata, alla quale distruggono anche le abitazioni, che lotta per difendere la propria indipendenza.

Una guerra basata su un odio alimentato ad arte, con una propaganda martellante, falsa e bugiarda, che mira al totale annientamento degli ucraini e al loro sterminio pianificato.

Una guerra scatenata da un uomo al quale sarebbe bastato, con gli stessi mezzi che ha sprecato per distruggere l’Ucraina e ammazzare migliaia di persone, sviluppare i servizi fondamentali in Russia, salvare la disastrosa sanità russa, aiutare i malati oncologici lasciati a sé stessi e privi di cure, risollevare l’edilizia che in provincia è a livelli da terzo mondo, garantire pensioni dignitose, potenziare l’istruzione e la ricerca, tornate a degenerazioni di tipo sovietico - per mantenere per altri decenni un alto livello di consenso, senza rischiare di perdere il potere e di finire dritto alla Corte Penale Internazionale dell’Aia. Adesso, invece, allo spettro dei dittatori giustiziati si è aggiunto quello di Slobodan Milošević a tormentare le notti di Putin.


© Rekh Magazine




Alessandro Vitale PhD, è Professore Associato di Economic Geography and History, di Arctic Studies (Facoltà di Giurisprudenza) e di Geografia Economica e Politica (Scienze Politiche, Economiche e Sociali) nell’Università degli Studi di Milano. Ha insegnato Analisi della Politica Estera, Relazioni Internazionali, Studi Strategici, Sistemi Politici Internazionali. Ha coordinato l’Osservatorio sull’Europa Centrale e Orientale dell’ISPI ed è membro del Consiglio Docenti del Dottorato in Political Studies. È membro del Consiglio Generale ISEC (Istituto per la Storia dell'Età Contemporanea), della Regione Lombardia. È autore di più di trecento pubblicazioni, apparse in dodici Paesi e pubblicate in sette lingue. Nel 2010 ha ricevuto il Premio internazionale Liber@mente.



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