Michelstaedter Between Fire and Darkness
- Primavera Fisogni
- 2 days ago
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The tragic figure of Carlo Michelstaedter, who took his own life in 1910, aged just 23, immediately after completing his philosophical dissertation ("La Persuasione e la Rettorica" — Persuasion and Rhetoric, published posthumously), continues to challenge us through both his extreme choice and the ethical power of his thought. We discuss this with Professor Paolo Bernardini, who wrote his first academic article about the young philosopher over 40 years ago

Carlo Michelstaedter (Foto da Wikipedia)
di Primavera Fisogni
Nel 1983 lo storico Paolo Bernardini, docente all'Università dell'Insubria di Como e Fellow presso l'Accademia dei Lincei di Roma, firmò il suo primo articolo accademico: uno studio appassionato, originale, denso di riferimenti critici su Carlo Michelstaedter (Gorizia, 3 giugno 1887 – Gorizia, 17 ottobre 1910), autore di "La Persuasione e la Rettorica", la tesi di laurea pubblicata postuma poco dopo il suicidio. Pochi giorni fa quel prezioso testo germinale è tornato disponibile in rete, grazie all'autore.
Anzitutto una domanda personale, professor Paolo Bernardini: cosa l'ha portata, a 21 anni, a pubblicare il suo primo articolo accademico proprio su Carlo Michelstaedter? Riscriverebbe il tuo testo come allora?
Diversi motivi. In quegli anni si stava riscoprendo Michelstaedter, sia grazie agli sforzi intelligenti di Adelphi, sia grazie a Sergio Campailla, italianista e scrittore genovese – classe 1945 – con cui entrai in contatto e che si dimostrò molto disponibile a consigliarmi e guidarmi nelle mie prime ricerche. Inoltre, eravamo un gruppo di giovani studenti universitari a Genova molto appassionati di letteratura e filosofia, e altrettanto attratti dal mondo mitteleuropeo. Tra noi v’era Riccardo Ferrante, triestino, storico del diritto italiano, ma ai tempi anche romanziere esordiente, con la benedizione del simpaticissimo Fulvio Tomizza, che purtroppo si spense ancor relativamente giovane nel 1999. Faceva da ponte tra Trieste e Genova, entrambe a loro modo “città” e “identità” “di frontiera”. Avevamo fondato una rivista, “L’Erbaspada”, prendendo il titolo dal nostro idolo Eugenio Montale, un quadrimestrale che ebbe una buona circolazione nazionale e che io dirigevo. Eravamo giovani un pochino tenebrosi, affascinati dal nichilismo e dal decadentismo, ma anche molto vitali e attivi, un po’ adolescenziali, forse, in anni tormentati, e in una città come Genova, scossa dal terrorismo, non solo quello delle BR, e dove comunque il “pensiero negativo” era insegnato da ottimi professori all’Università; tra loro mi piace ricordare Alberto Caracciolo, ordinario di Teoretica, con cui ebbi una violentissima discussione al mio esame, proprio in riferimento a Michelstaedter, che Caracciolo non annoverava tra i filosofi veri. In ogni caso da lui molto appresi, come dai diversi Maestri presenti nell’Ateneo genovese del tempo, un vero e proprio laboratorio di pensiero. Sono devoto alla loro memoria, indipendentemente da qual sia stata la loro ideologia. Erano così diverse le università allora, dagli esamifici di stato asserviti al “pensiero unico” che sono diventate ora. Si viveva nel mondo delle idee e degli scontri di pensiero, via Balbi a Genova era entità vivissima.
Non riscriverei il saggio così, c’è la presenza dei miei punti di riferimento di allora, marxisti più o meno inclinati al pessimismo e all’esistenzialismo, dal giovane Lukács ad Adorno e Horkheimer, che allora andavano ancora per la maggiore. Ora e da decenni sono ampiamente convertito al liberalismo classico, occasionalmente scivolo perfino nel libertarismo più assoluto, e forse non solo non riscriverei il saggio così, ma avrei difficoltà ad affrontare Michelstaedter stesso. Però chissà, può darsi ci ritorni.
Inseriamo Michelstaedter nel suo tempo e diamo qualche indicazione sul pensatore. Perché oggi abbiamo bisogno di rileggerlo?
Michelstaedter è figlio della cultura mitteleuropea e del pensiero negativo ottocentesco in generale, in lui si sente l’eco di Nietzsche e Schopenhauer, ma non solo di costoro, anche di filosofi negativi “minori”, come von Hartmann. Poi vi è la presenza dei grandi tragici ed in generale del pensiero greco, appreso alla fonte, vissuto quasi come se fosse…vivo. Appartiene ad una generazione “estesa”, di giovani ribelli, dotati di una eticità fortissima, insoddisfatti del mondo “borghese” in cui pure avrebbero potuto inserirsi benissimo, per le loro doti intellettuali, e anche fisiche, e la loro provenienza sociale. Insomma, sono “philosophes maudits”, ma anche, nel caso di Michelstaedter, “poètes maudits” e la recentissima edizione delle poesie presso “La vita felice” ha riacceso il mio interesse proprio per la poesia del giovane Carlo (insieme all’incontro con una giovane studiosa di cui parlerò dopo). Dobbiamo rileggerlo, Carlo, credo, proprio per esorcizzare i nostri demoni esistenziali, piuttosto che per esacerbarli. Ma poi lo si rilegge anche per questa prosa accecante, coerentissima, che lo distingue da altri “filosofi maledetti” e suicidi come lui giovanissimi, penso al genio austriaco Otto Weininger.
Michelstaedter esprime un’altissima istanza etica, nella figura del “persuaso”, che rende tale figura idealmente distante sia dal “superuomo” di Nietzsche, sia dallo “uomo nuovo” dei Futuristi (...) Il persuaso è l’individuo etico assoluto, per usare qualche accento hegeliano. In realtà, in tale figura è racchiusa tutta la positività del pensiero di Michelstaedter, e anche una lode alla vita intesa come profonda consapevolezza dell’Essere e insieme della propria collocazione nel mondo, prima che in tale Essere stesso di cui il mondo è parte.
La filosofia, la ricerca della verità come una fiamma ardente e il disagio psichico che porterà Carlo al suicidio. C'è connessione tra queste tracce esistenziali?
La connessione tra la filosofia come pratica intellettuale – quasi ossimoricamente, come “pratica teorica” – e vita è sempre difficile da tracciare. O, al contrario, facilissima. Il suicidio è gesto di estrema coerenza e ultimo per la filosofia negativa, che nega il senso alla vita stessa e la vede come una somma di mali, da cui scappare il prima possibile. Quindi la scelta esistenziale del suicidio può essere frutto di una coerenza teorica, nella misura in cui si nega ogni valore e bontà all’esperienza della vita terrena. Poi in realtà filosofi si suicidano – penso a Steno Tedeschi, che si uccide in quegli anni, figlio anch’egli della Trieste di Svevo e imparentato con quest’ultimo – senza che il gesto fosse conseguenza di un pensiero vero e proprio, Tedeschi era un pragmatista seguace della Scuola austriaca di Graz. Sono sempre più convinto che Leopardi, abusando di gelato ancorché pare diabetico, si sia lasciato morire. D’altra parte lo diceva in tutte le salse: “Meglio non esser nati, o esser morti in cuna”. Ovvero, nella culla.
Nietzsche, Marinetti: l'impulso del fuoco come motore della vita caratterizza la cultura del tempo di Carlo. In che cosa il suo pensiero si smarca da facili connessioni?
Il fuoco. Volli iniziare il saggio che tu citi, nel 1983, coll’immagine del fuoco non solo in omaggio a Marinetti – anche se il Futurismo in principio è vitalistico e dunque aborre il suicidio – ma anche perché nel primo anno di università uno storico della filosofia antica, che era stato anche da ragazzino, giovanissimo partigiano, torturato dai nazifascisti, Antonio Mario Battegazzore, classe 1934, che nel mio primo anno di studi di Filosofia a Genova, ovvero il 1982/1983, aveva dedicato un magnifico corso al “fuoco” nella filosofia antica, per cui scrissi la mia prima tesina, sul fuoco in Lucrezio, che gli piacque molto, anche se il mio esame sulla parte generale fu pessimo. Per rispondere alla domanda: Michelstaedter esprime un’altissima istanza etica, nella figura del “persuaso”, che rende tale figura idealmente distante sia dal “superuomo” di Nietzsche, sia dallo “uomo nuovo” dei Futuristi (che poi diverrà l’uomo nuovo fascista, su cui molto si è scritto: ad esempio gli omosessuali erano considerati i perfetti nemici di questi “uomini nuovi”, e certo non dobbiamo stupire per questo). Il persuaso è l’individuo etico assoluto, per usare qualche accento hegeliano. In realtà, in tale figura è racchiusa tutta la positività del pensiero di Michelstaedter, e anche una lode alla vita intesa come profonda consapevolezza dell’Essere e insieme della propria collocazione nel mondo, prima che in tale Essere stesso di cui il mondo è parte.
Vorrei portarla sulle tenebre di Carlo: come si spiega questo profondo malessere interiore, sulla base dei suoi studi?
Difficile rispondere, se non banalmente riferendosi al malessere di una generazione, cresciuta nella profonda crisi di quel “mondo di ieri” – per usare la locuzione resa nota da Zweig, peraltro anch’egli morto suicida in età matura, alla fine del secondo conflitto, e misteriosamente insieme alla propria segretaria-amante – alla vigilia della Prima guerra mondiale. Credo sia davvero un malessere generazionale, dovuto peraltro anche alla grande accelerazione del mondo che ebbe luogo nel secolo XIX, soprattutto verso la sua fine. Una vera alba di modernità; ma quel sole accecò molti, che non vi erano preparati. Credo tuttavia che ancora vi sia molto da comprendere nello straordinario viluppo di vita, pensiero e personalità di Michelstaedter. Ci tornerò con strumenti altri rispetto a quelli per forza di cosa limitati dei venti anni, e con maggior distacco, soprattutto.
Carlo è un unicum nel pensiero del Novecento. Il suo disagio di giovane alla ricerca di un ubi consistam, a suo giudizio - lei è professore universitario - trova qualche analogia con la Gen Z?
Questa domanda mi consente di parlare del grande fascino che il goriziano esercita tuttora, soprattutto tra i giovani studiosi, anche della Gen Z, se la si fa comunemente iniziare nel 1997. Penso ad esempio ad una brillante studiosa della filosofia dello “anti-natalismo” – che origina nelle sue forme attuali nel mondo anglosassone: Sarah Dierna, che è nata proprio nel 1997, la quale ha dedicato a questa teoria un libro approfondito, È il nascere che non ci voleva. Storia e teoria dell’antinatalismo, appena pubblicato da Mimesis. Si occupa molto di David Benatar, classe 1966, filosofo sudafricano campione dell’anti-natalismo come coerente negazione della validità logica, ontologica e morale della non-procreazione. Proprio uno scambio epistolare con la giovane Sarah, interessata ai miei lontani lavori su Michelstaedter, ha contribuito a riaccendere il mio interesse per quest’ultimo. Insomma, è un crimine metter al mondo esseri umani, come vogliono gli anti-natalisti di tutto il mondo? Non lo so. Certamente il mondo sta rallentando la propria ascesa demografica, e vi è invece che stigmatizza questo gelo demografico – che tocca senz’altro l’Italia, e gran parte d’Europa, ma anche il Giappone e la Corea del Sud e molti altri Stati – e penso, dal punto di vista del liberalismo classico, che alla fine è il mio, al bel libro (opposto speculare a quello altrettanto bello della Dierna), di Paul Morland, Senza futuro. Il malessere demografico che minaccia l’umanità, pubblicato in questo stesso 2025 da Liberilibri di Macerata. Morland è un importante demografo inglese che è stato anche docente universitario. Mette in guardia sui disastri che porta la denatalità, e invita come Dio nella Genesi a “crescere e moltiplicarsi”. Insomma, sarebbe bello un confronto dal vivo su queste due posizioni.
Purtroppo, per tornare al cuore della domanda, vedo molto disagio nella Gen Z, e quando penso all’eutanasia che ha ottenuto per vie legali Siska De Ruysscher, la giovane fiamminga, classe 1999, che è stata soppressa dietro sua istanza e confortata dalla presenza dei familiari ai primi di Novembre di quest’anno, in un Paese in cui l’eutanasia è legale dal 2002, mi vengono i brividi. Era una figlia della Gen Z a tutti gli effetti. Era bellissima e giovanissima. Evidentemente soffriva nel profondo e questo non voglio negarlo. Sarebbe offendere la sua memoria. Eppure…
Certo, la vita la si può vedere come un dono, o come un peso. Sia che si creda in Dio, sia che si sia totalmente atei. Dio può averci dato la vita come dono, o, appunto, come condanna, se si crede tra l’altro nelle divinità “malvage e morenti” che sfogano la loro pena sull’umanità, che l’Ottocento filosofico soprattutto tedesco ha generato. Penso a quella figura affascinante che fu Philipp Mainländer (1841-1876), autore di una summa di pensiero negativo, in dialogo, anche critico, con Schopenhauer, La filosofia della redenzione, indigesta come poche altre. Ebbene, a soli 35 anni si impiccò in una stalla usando come sgabello proprio una pila di copie del suo La filosofia della redenzione, che l’editore gli aveva appena recapitato. Morte simbolica, e coerente col proprio pensiero. Le sue opere sono state pubblicate in quattro volumi da Olms, a cura di Winfried H. Muller-Seyfarth. In Italia lo ha studiato lo storico della filosofia Fabio Ciracì, che insegna presso l’Università del Salento. Ma prima di lui il collega pavese Giuseppe Invernizzi, in un libro che ancora consiglio, del 1994, dedicato alla grande e oscura stagione del “pessimismo tedesco”, libro ora liberamente consultabile online: http://old.studiumanistici.unimi.it/files/_ITA_/Filarete/157.pdf
Personalmente, credo che la vita sia un dono. Non ho avuto figli, ma non so se questo dipenda dal caso, o da una precisa etica anti-natalistica. Certamente ritengo, con Jean Améry, che l’individuo abbia già una piena consapevolezza della propria grandezza quando realizza che egli può darsi la morte in qualunque momento. Il miglior modo per esorcizzare il suicidio. Per essere davvero liberi. Améry pubblico il suo libro, ormai un classico, sul suicidio, nel 1976, e si uccise due anni dopo. Come Levi, aveva però vissuto il trauma dei campi di concentramento nazisti, che aveva descritto in modo lancinante nelle sue opere. Undici anni dopo si uccise anche Primo Levi. Quest’ultimo suicidio mi fece immensa impressione, alcuni giorni dopo il mio ventiquattresimo compleanno. Colpì anche il mio amico e collega Sergio Luzzatto, che poi avrebbe scritto su Levi pagine importantissime. Ne parlammo molto, allora.
L’uomo può dare o non dare la vita, dare la morte ad altri, darsi la morte. Questo comunque non lo rende Dio. Rimane la “canna pensante” di Pascal. Fragilissimo, di immenso ha solo il proprio pensiero, le proprie facoltà intellettuali, ma anche morali. La meteora Michelstaedter ce lo ricorda appieno, questo.
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L'autore

Paolo Bernardini, storico e docente ordinario all'Università dell'Insubria di Como, è un'eminente figura accademica italiana di rilievo internazionale. Si laurea in Filosofia all'Università di Genova nel 1987 e ottiene un Dottorato di Ricerca in Storia e Civiltà presso l'Istituto Universitario Europeo di Firenze nel 1994. In Italia, ha insegnato presso le Università di Torino, Parma (rientrando grazie al programma "Rientro dei cervelli" del MIUR) e Padova. A livello internazionale, la sua attività è stata particolarmente intensa. Ha insegnato in Australia (University of Technology, Sydney), nel Regno Unito (University of Essex) e negli Stati Uniti. In America, è stato Fulbright Professor presso la University of Pittsburgh e ha insegnato alla University of Missouri-St. Louis. Uno dei suoi contributi più significativi alla cooperazione accademica internazionale è la creazione e direzione, per otto anni (2001-2009), del Center for Italian and European Studies della Boston University, un importante centro di studio e ricerca italiano negli Stati Uniti. Ha inoltre svolto il ruolo di visiting professor presso la University of Cape Town in Sudafrica e la University of Hong Kong. Attualmente, Bernardini è Professore Ordinario presso l'Università degli Studi dell'Insubria, a Como, dal 2006, dove è stato anche Direttore e primo proponente del Dipartimento di Scienze Umane e dell'Innovazione per il Territorio. I suoi meriti accademici sono stati riconosciuti anche con la nomina a Fellow presso l'Accademia dei Lincei di Roma, al Centro Linceo Interdisciplinare Beniamino Segre, per il triennio 2016-2019. Più recentemente, è stato Fellow dello Hamburg Institute for Advanced Study nell'anno accademico 2021-2022.



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